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La mano tesa
di Draghi ai partiti

La mano tesa <br> di Draghi ai partiti

di Paolo Pombeni

L’intervista di Pasqua data in esclusiva al “Corriere della Sera” non è passata come un normale episodio nella comunicazione di un premier. Prima di tutto perché Draghi in un anno e più di governo di interviste non ne aveva finora concesse, preferendo le conferenze stampa, che indubbiamente sono più rispettose del rapporto con tutto il sistema della comunicazione. In secondo luogo perché è uscita in un giorno simbolico, cosa che non può essere considerata casuale, alla vigilia di passaggi difficili: c’è la guerra in Ucraina in peggioramento, ci saranno a fine settimana le presidenziali francesi (un appuntamento importante), si apre un momento di confronto parlamentare non proprio idilliaco su questioni chiave per il successo del PNRR (riforma della giustizia e del fisco). Su questo sfondo il premier ha ritenuto importante far conoscere la sua posizione, tenendo in mano il bandolo della matassa come è possibile in un’intervista senza doversi concedere alle inevitabili provocazioni, benevole o malevole, come accade nelle conferenze stampa.


Pur parlando di molti argomenti, il focus era costituito, a nostro avviso, da una questione di fondo: è necessario che il governo duri fino alla naturale conclusione della legislatura, ma i partiti stiano tranquilli perché il premier non intende sfruttare i successi che così potrà ottenere per rimanere al potere. Su questi punti Draghi è stato chiarissimo, anche se ha usato come di consueto un linguaggio pacato, alieno da ogni tono sopra le righe. Ci si potrebbe interrogare se questo privilegiare il rapporto coi partiti, inclusi quelli di opposizione (si leggano le garbate osservazioni sulla Meloni), non lasci da parte le relazioni con il popolo, che tutto sommato è poi quello che dovrà sia reggere le difficoltà di questa congiuntura storica, sia sostenere col consenso l’azione di governo.
Tuttavia in questo momento l’instabilità della situazione è determinata dalle fibrillazioni dei partiti, specie da Lega e M5S, anche se Draghi non fa nomi per non compromettere l’obiettivo di stemperare le tensioni. Quando egli ricorda alle forze politiche i tanti risultati raggiunti, nella lotta alla pandemia come nel ristabilimento di un contesto economico favorevole, lo fa per invitarli ad intestarsi questi successi come frutto di un lavoro comune, piuttosto che come merito del premier (che peraltro è quel che invece pensa gran parte della pubblica opinione). Il messaggio subliminale, ma non tanto, è questo: fate campagna elettorale facendovi belli di quel che abbiamo ottenuto, anziché buttarvi ad alimentare polemiche di bandiera, per non dire demagogiche.
Per svelenire il clima Draghi concede molto in questa intervista: afferma che terrà conto di tutte le preoccupazioni che i partiti stanno avanzando e che si lavorerà per un compromesso accettabile da tutti; ribadisce che cercherà di lasciare il più ampio spazio al dibattito parlamentare evitando al massimo di mettere la questione di fiducia.


Basterà per disarmare le velleità polemiche di quei partiti, e non sono pochi, che continuano a disseminare il terreno delle loro bandierine? A dire la verità noi qualche dubbio in proposito ce l’abbiamo, per la semplice ragione che accennavamo prima: la gente è poco propensa a riconoscere meriti ai partiti. In più quei meriti sarebbero nel caso collettivi, mentre le forze politiche, essendo in forte competizione fra loro (anche dentro le coalizioni), hanno bisogno di intestarsi successi che possano vantare come esclusivi.  Tuttavia proprio per offrire ai partiti un terreno di competizione che li distragga dalla demagogia spicciola, Draghi presenta il vero argomento forte della sua intervista: lui viole arrivare alla fine della legislatura (così tranquillizza chi teme elezioni anticipate) e non è stanco, ma poi ritiene giusto che l’Italia torni ad avere alla testa del governo una personalità che esce dal confronto elettorale. E quella non sarà lui, che alle urne andrà, come ha sempre fatto, da semplice elettore.
Si può disquisire (e lo si sta facendo) su quanto sia irrevocabile questa scelta e si cita il caso di Mattarella, che però è molto diverso. In realtà risponde semplicemente a quel realismo politico che non ha mai fatto difetto a Draghi: un governo “tecnico”, per di più basato su una coalizione di solidarietà nazionale non può durare oltre una scadenza istituzionale come sono le elezioni politiche. A quel punto se il sistema non torna alla normalità e supera l’emergenza significa che non è in grado di mantenere la sua legittimazione non solo verso il paese, ma verso il sistema europeo ed internazionale (due sedi decisive nelle contingenze che si preparano). Draghi offre dunque la sua proposta alla valutazione del paese e delle forze politiche: si deve gestire questa congiuntura che, in maniera inaspettata, ha saldato la messa sotto controllo della pandemia e la ripresa economica fondata sul Recovery europeo con lo sconvolgimento del sistema delle relazioni internazionali innescato dall’avventurismo di Putin. Ciò significa non interrompere per banali calcoli elettorali e di lotta politica dentro e fra i partiti il lavoro di stabilizzazione che si sta svolgendo. Poi, ottenuto si spera questo risultato arrivando alla fine della legislatura a primavera 2023, si aprirà per i partiti la seconda fase della lotta per la stabilizzazione: quella che dovrà decidere quali maggioranze reggeranno il governo e quali personalità politiche lo guideranno.


Un obiettivo a cui si dovrà arrivare, evitando però, questo lo aggiungiamo noi perché Draghi forse lo lascia intendere ma non lo dice, che ciò avvenga anziché su una valutazione dei risultati ottenuti nell’ultimo difficile triennio, sulla rincorsa delle paure e delle passioni meno nobili che possono nascere davanti ad un futuro incerto.

(da mentepolitica.it)

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