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Libri, la figura dell’export manager per l’azienda che guarda all’estero

 Libri, la figura dell’export manager per l’azienda che guarda all’estero

In un’economia italiana che paga dazio al caro-energia e all’inflazione, il peso dell’export è sempre più importante per la sopravvivenza delle imprese. Ma l’internazionalizzazione non si improvvisa, soprattutto perché i mercati esteri sono diversi dal contesto nazionale: c’è da fare i conti con barriere sociali, relazionali e talvolta anche politiche. Anche per questo, diventa fondamentale nelle imprese la figura di un export manager, ossia un professionista che metta la propria conoscenza delle dinamiche dei mercati internazionali al servizio delle aziende. A questa figura peculiare per l’economia moderna è dedicato “Export Manager: guida operativa per crescere nei mercati esteri” (Egea, 288 pagine, 37 euro), il libro scritto da due esperti del settore, ovvero Luca Gatto, docente di export management e senior manager e Marco Sanfilippo, manager e consulente per l’internazionalizzazione di numerose realtà internazionali. L’occasione è buona per una chiacchierata con Luca Gatto, che racconta 9Colonne il ruolo e l’importanza dell’export manager nell’economia attuale.

Perché questa figura è cruciale nell’economia di oggi?
L’export manager è la figura centrale per sviluppare il business dell’azienda all’estero. Ma l’export manager non si occupa solo di sviluppo, altrimenti si tratterebbe di un sales manager; bensì aiuta l’imprenditore lungo un processo che permette all’azienda di adeguarsi e crescere in modo solido sui mercati esteri, che sono sempre più complessi. L’export manager supporta l’azienda lungo tutto il processo dell’export, in particolare: valuta in modo oggettivo il modello di business dell’azienda ed il livello di maturità per esportare; identifica i mercati target più attrattivi ed accessibili combinandoli con le caratteristiche dell’azienda; supporta nella definizione delle migliori strategie di ingresso; lavora a stretto contatto con il management e l’imprenditore per adeguare il modello di business ai mercati esteri: prodotto, packaging, prezzo ma anche comunicazione, brand e promozione; valuta i rischi che non solo mitiga ma li può rendere anche una fonte di vantaggio competitivo; sviluppa l’export business plan, che implementa ed adegua in funzione della fluidità del contesto competitivo.

Quali sono le sfide maggiori che l'export italiano deve affrontare, in un momento in cui questo è il settore che può tenere a galla l'economia?
L’export richiede competenze, che riguardano tutta l’azienda a livello trasversale; dall’area produzione, alla finanza, all’IT, alle risorse umane (saper assumere, gestire e sviluppare personale locale), fino al post-vendita. Infine la logistica soprattutto in uscita, perché bisogna evitare di perdere marginalità importanti e bisogna sviluppare la relazione del cliente. Quindi la prima sfida è investire in competenze, a cui legherei anche la parola giovani. L’esperienza internazionale non si improvvisa e se non è presente è opportuno farsi affiancare da professionisti del settore. Poi non si può fare export serio senza investire. Altra frontiera è il digitale: occorre abbracciarlo realmente. Che non vuol dire un sito web o la riunione su zoom: deve entrare nel Dna dell’azienda in tutte le funzioni (dalla IA, alla blockchain, al metaverso). Export vuol dire anche vivere il rischio in modo proattivo. Non vuol dire essere temerari ma il contrario, poiché l’export presenta opportunità ma allo stesso tempo rischio, che deve essere valutato e mitigato fino a farlo diventare una leva competitiva. Per esempio, le aziende tedesche utilizzano la dilazione di pagamento come normale strategia commerciale, a cui affiancano la copertura assicurativa. In Italia questo non accade e ci si assicura solo quando non è possibile utilizzare la lettera di credito come mezzo di pagamento. In questo modo si perdono clienti o comunque non se ne sviluppano di nuovi. Poi occorre trasformare i fornitori in partner, coinvolgendoli in un percorso di codesign ed innovazione. Infine, spingere sul Made in Italy, che è il terzo brand al mondo.

Che differenza c'è nell'approccio all'export per una Pmi rispetto ai grandi brand? Davvero l'export è per tutti?
In generale l’export, secondo me, è per tutti ma l’approccio è molto diverso a seconda della dimensione dell’azienda (in termini di fatturato) e del settore. Si va dalla azienda micro o piccola (fino a 10 milioni di euro di fatturato) che utilizza figure esterne come il temporary export manager che affianca il titolare, sino ai grandi brand dove la struttura commerciale estera è un’area organizzata per paesi, con più figure e che risponde direttamente al Ceo. In termini di settore possiamo per semplicità dividere le aziende in quattro categorie. Nei servizi, il ruolo dell’export manager è centrale nello sviluppo delle partnership locali; nel settore Food e affini contano capillarità e logistica e qui l’Italia sconta l’assenza di catene di distribuzione tricolori, ma la qualità, unita allo sviluppo del brand con packaging distintivi consente all’azienda la riduzione del gap. I beni di consumo durevoli come fashion o forniture per eccellenza, oltre a capillarità e logistica ha come aspetto fondamentale il post vendita, quindi la qualità del prodotto. Infine i beni strumentali, come macchinari, altro punto di forza del Made in Italy. La fase strategica è rappresentata dalla manutenzione visto che i prodotti entrano in modo stabile nel ciclo produttivo dei clienti. Riuscire a minimizzare gli impatti di eventuali rotture è l’obiettivo principale.

Il libro propone anche 18 case studies. Ci fa un esempio di cosa funziona e cosa no, quando si decide di esportare.
Due casi su tutti. Una Pmi abruzzese che esposta per il 95% nel Regno Unito, UK ma con un solo cliente ed in modalità white label (ovvero senza marchio). L’azienda decide che è ora di crescere minimizzando i rischi. Come? Diversificando Paesi/clienti e sviluppando il brand. Ha quindi iniziato aggiornando il sito web, sviluppando la presenza sui social (sia quelli B2C che B2B), ha progettato nuove brochure, company profile distinti per canali e mercati. L’assetto organizzativo ha richiesto cambiamenti importanti per adeguare l’azienda alla nuova strategia.E’ cresciuta del 60% nell’arco di piano. Altro caso, un’azienda romana che produce e vende apparecchiature medicali. Negli ultimi 20 anni capisce le potenzialità dei dispositivi di tecarterapia, su cui investe in R&D, fino ad essere l’unica ad aver sviluppato una app proprietaria. Le risorse sono da Pmi e quindi è necessario essere attenti nella scelta dei partner, che saranno poi rappresentati da distributori/rivenditori di apparecchiature per la fisioterapia nei mercati target. L’idea è di affiancarsi a chi ha il rapporto diretto con i clienti finali (le palestre). Per la formazione utilizza professionisti internazionali affiancati ai partner. Il risultato è che i dispositivi sono ormai installati in oltre quaranta Paesi.
(lom – 20 ott)

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