Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Da Palazzo Chigi alla Città proibita

di Michele Mezza

C’è qualcosa che lega la conclusione del congresso del partito comunista cinese con il nuovo governo di Giorgia Meloni, o la crisi dell’esecutivo britannico ? Sono ovviamente tre universi completamente diversi, distanti sia per la struttura istituzionale che per la cultura politica e sociale. Eppure se si osserva la formazione dei rispettivi vertici non si può non cogliere delle affinità e convergenze.
In tutti e tre i casi emerge ormai come categoria portante della rappresentanza politica e legittimità a governare la vicinanza, quasi il vincolo di sangue fra il leader e i più alti dirigenti istituzionali. A Pechino, forse per la prima volta, si è assistito ad una europeizzazione della nomenklatura. Perfino sotto il potere del mitico Mao Tse Tung la leadership in quel paese doveva essere attentamente dosata e costantemente rettificata, alla luce di risultati e obbiettivi. Nel corso del suo impero il grande timoniere ha dovuto più volte riorganizzare l’assetto del suo potere, componendo conflitti e contrapposizione e combinando le diverse anime di un apparato politico che doveva comunque rispondere a grandi interessi territoriali. La Rivoluzione Culturale, che forse qualcuno ancora ricorda, fu scatenata da Mao proprio per rintuzzare attacchi interni al suo dominio. La convivenza con altri leader che non coincidevano perfettamente con lui, come Lin Piao, poi estromesso violentemente, o Ciu En lai, o anche , con alterne vicende, Deng Tsiao Ping testimonia della collegialità a cui era costretto il presidente cinese.
Più recentemente, dopo ogni massima assise del partito eravamo abituati a interpretare i nuovi organismi dirigenti alla luce della geografia di correnti, scuole di pensiero e lobbies che articolavano il Politburo, il cuore del potere reale della Città Proibita. In queste ore tutti gli esperti ci dicono invece che Xi Ji Ping abbia fatto cappotto.
Non solo si è assicurato , formalmente, il mandato all’eternità, rimuovendo ogni limite d’età per le sue cariche, ma ha sbaragliato il campo di una larvata opposizione che comunque serpeggiava negli stadi intermedi del partito, eliminando ogni presenza in odore di una seppur vaga distinzione rispetto alla sua leadership. Per la prima volta il massimo olimpo comunista è composto prevalentemente da personale di staff e non più da rappresentanti di territori o apparati del paese. Gli assistenti hanno prevalso sui dirigenti. La spettacolare rimozione del predecessore dell’attuale segretario, Hu Jin Tao, portato fuori a braccia dalla grande sala congressuale parla ai cinesi del potere assoluto del nuovo imperatore più di mille saggi.
Possiamo dire che anche il mastodontico partito comunista cinese è diventato un partito personale, usando la categoria forgiata da Mauro Calise per identificare la natura dei sistemi politici indotti e legittimati dal capo.
Il Governo Meloni trasferisce questa dinamica dalla sfera dell’organizzazione politica, che rimane pur sempre un’associazione privata, a quella delle istituzioni. Le querelle che abbiamo visto fra lei e Berlusconi, o prima ancora con la Lega non sono tanto la conseguenza di una valutazione di merito sui candidati ministri che venivano proposti dall’esterno, quanto dalla necessità di rendere l’esecutivo ad immagine e somiglianza dello staff del presidente. Una ristretta cerchia di collaboratori che diventano ministri e prolungtano lo stile di lavoro di uno staff collaborativo nelle stanze del governo.
Decide comunque il capo. Una verticalizzazione che per essere sostenibile ha bisogno di essere sostenuta e supportata da forme di consenso che vengono poi ricercate direttamente nelle sedi della rappresentanza sociale . Ed infatti la neo premier ha già inaugurato le sue consultazioni con arti e mestieri: la Coldiretti per l’economia, i consulenti del lavoro per la previdenza, le associazioni d’impresa per il PNRR. Una sorta di neocorporativismo che rende il presidente del consiglio il vero ed unico interlocutore della politica nazionale. I ministri, come i dirigenti del politburo cinese, e come i membri del gabinetto inglese, sono pura intendenza, che come con Napoleone, seguirà. Un fenomeno questo che incide direttamente sia sulla cosidetta forma partito, che sempre più diventa il comitato elettorale del segretario che deve trovare linguaggi e tecniche per parlare direttamente ai mondi da cui si attende il consenso, e sia delle istituzioni che si appiattiscono al ruolo di occasionali esperti.
Queste dinamiche sono la diretta conseguenza di quella frantumazione sociale, liquefazione avrebbe detto Baumann, dei ceti portanti della comunità nazionale. Si attenuano i ruoli dei grandi conflitti sociali, che non richiedono né mediazione né rappresentanza, ma solo arbitrato tecnico.
Gli apparati industriali sono determinati non dal rapporto fra capitale e lavoro, proprietà e dipendenti, ma dalle caratteristiche tecnologiche dei sistemi produttivi e da strategia di marketing e comunicazione che valorizzano ogni prodotto. Così come abbiamo visto persino funzioni vitali come appunto la sanità, nel corso della drammatica fase acuta della pandemia, si è scomposta in tante stanze regionali, dove ogni presidente giocava la sua partita d’immagine, sbriciolando ogni idea di strategia nazionale.
Già 30 anni fa uno straordinario sciamano dell’evoluzione sociale quale è Paul Viriliò, ci spiegava nel suo saggio La Bomba Informatica che “dietro la propaganda libertaria per una democrazia diretta, in grado di rinnovare la democrazia rappresentativa dei partiti politici, s’istalla l’ideologia di una democrazia automatica in cui l’assenza di deliberazione sarebbe compensata da un automatismo sociale simile a quello del sondaggio d’opinione o alla misurazione dell’audience televisivo”. Oggi potremmo aggiungere i like o i click sui social come termometro della propria accettazione presso le articolazioni sociali. In questo sciame, come scrive il filosofo tedesco di origine sud coreana Byung-Chul Han, composto da individui che occasionalmente assumono singole funzioni e dunque momentanei interessi. In questa oscillazione delle domande sociali che cambiano proprio in base alla mutazione della collocazione delle persone nelle scale del lavoro, non conta più la catena di collegamento fra vertice e base ma solo la capacità di emozionare , conclude Byung-Chul Han “si vota come si compra”.
Solo ripopolando lo scenario sociale dominato dalla tecnologie individuali di conflitti e negoziazioni si può riconquistare il protagonismo della rappresentanza, riducendo le leadership personali. In questi giorni la promulgazione del nuovo Digital Market Act, il nuovo codice delle relazioni digitali approvato dalla commissione europea, ci offre una base concreta per mettere in moto un meccanismo di contrattazione degli algoritmi e delle memorie, ridando alla politica una missione di organizzazione dell’attrito sociale rispetto all’automatismo delle piattaforme.

(© 9Colonne - citare la fonte)