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Pd, prima della linea
serve l’organizzazione

di Salvatore Tropea

Se lo chiedi ai superstiti con i capelli bianchi che un tempo affollavano nelle grandi città come nei piccoli centri di provincia le sezioni e i circoli della sinistra con una frequentazione prossima alla devozione te lo dicono senza tanti infingimenti e con parole che ancora rifiutano la rassegnazione. In questa eccessivamente lunga strada verso il congresso del Pd ti spiegano quelle che a loro modo di vedere sono le ragioni dello spaesamento del partito che poi sono in larga parte le stesse che hanno contribuito alle recenti sconfitte e alla sua progressiva perdita di identità.
Da Torino a Palermo e da Genova a Trieste ti spiegano come le tappe per far rinascere subito il partito come dice Letta non sono quelle indicate da un gruppo di dirigenti scollegato dalla realtà, con i giornali che lo vezzeggiano e alcuni intellettuali che lo incoraggiano. Appena pochi giorni fa un esponente dl lungo corso del Pd che è stato in passato dirigente e segretario a Torino nell’ultima fiammata ruggente di fine Novecento (quella dei sindaci Castellani, Chiamparino e Fassino) mi faceva notare come il dibattito in corso, che indubbiamente ha una sua funzione come propulsore di idee per dare forma e contenuti a un partito che da troppo tempo naviga a vista, trascura di affrontare uno dei punti centrali del problema rappresentato dall’organizzazione del partito.
Nella sua metamorfosi, cominciata alla fine degli anni Ottanta e non ancora conclusa, sottraendo più che sommando tra le sue tante anime irrequiete, la sinistra ha trascurato il suo aspetto organizzativo, ha lasciato che andasse in pezzi quella che era stata la macchina che le dava non solo forza ma anche una fisionomia. Come se si vergognasse di un lavoro da funzionariato, che a molti entrati nella nuova famiglia ricordano il Pci e il Psi, il Pd ha lasciato che si sbriciolasse la vecchia organizzazione e in qualche caso ha impedito che nascesse una nuova, sicuramente con altre regole ma in ogni caso capace di tenere assieme il partito, farlo crescere e, soprattutto impedire che perdesse il contatto con un elettorato che, di fronte alla porta chiusa della sezione, si è disperso voltando le spalle.
In questo modo il Pd, stando alle critiche di una periferia che non è fatta di marginalità sociali e economiche come si potrebbe pensare ma di pezzi di società che sono stati per decenni una garanzia di diffusa presenza urbana, si è trasformato in una specie di consorteria che, gattopardescamente, finge di cambiare attenta a fare in modo che tutto rimanga come prima. All’indomani dell’ultima sconfitta elettorale, Enrico Letta, con le dimissioni e la proposta del congresso, aveva annunciato l’apertura di una discussione che, allargata anche agli ambienti non di partito, avviasse una vera rifondazione possibilmente non limitata al cambio del nome come pure è avvenuto con sprezzo del pericolo e del ridicolo.
Nelle ultime settimane il dibattito è salito di tono, con interventi, lettere, iniziative di sicura autorevolezza. Ma la sua ristrettezza numerica conferma il perdurare dell’assenza di una struttura capace di accollarsi il lavoro “sporco” di tutti i giorni, quella macchina senza la quale si fa sempre più minacciosa l’ombra del declino. E non è una questione di orfananza ma di consapevolezza del fatto che l’organizzazione del partito non è un lavoro sporco e un inutile residuato del passato.

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