Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Il difficile rapporto
di Meloni con la stampa

di Salvatore Tropea

Continuo a ignorare quale possa essere l’origine semantica e anche quella geografica ma ricordo perfettamente che mia madre, quando doveva sottolineare qualche mia furbizia tesa a dare importanza a fatti o circostanze che ne erano privi, usava la curiosa locuzione “mettere l’acqua alle galline quando piove”. Che è come dire riunire un consiglio dei ministri nel giorno in cui in tutto il mondo democratico si celebra il Primo Maggio, chiamando raccolta al tavolo di Palazzo Chigi i titolari dei tutti i dicasteri e perciò anche quelli che nei primi sette mesi del governo Meloni si sono messi in evidenza per le loro ripetute assenze sul posto di lavoro.
 Perché è di tutta evidenza che collocare quell’appuntamento un giorno prima o un giorno dopo non avrebbe cambiato nulla salvo portare via il giocattolo alla presidentessa che aveva predisposto tutto per amplificare gli effetti di un atto normale come un consiglio dei ministri. E poiché deve sentirsi autorizzata dal ruolo a giocare da sola ha preso l’abitudine di cancellare la conferenza stampa che normalmente segue quella riunione. Tanto più importante se, come nel caso in questione, avrebbe dovuto illustrare provvedimenti importanti che a distanza di giorni continuano a suscitare discussioni per la loro scarsa chiarezza e per le tante chiavi di lettura che, piaccio o no alla Meloni, non risolvono, anzi aggravano, i problemi del lavoro.
Sull’argomento lei ha scelto di diffondere la “versione di Giorgia”, senza darsi pena di dover affrontare quegli scocciatori di giornalisti con le loro domande ed esporsi al rischio di un’altra giornataccia come quella vissuta sulla spiaggia di Cutro: che ancora se la ricorda e che  verosimilmente è la ragione per la quale lunedì scorso lei ha optato per il teatrino del monologo sotto le luci delle telecamere con  tanto di commenti entusiastici e ammirati da parte della stampa amica, più qualche apprezzamento di quelli che hanno detto “è un grande comunicatore” di Salvini, di Renzi, di Berlusconi e di tanti altri andando indietro nel tempo. Una recita di chiusura d’anno scolastico a commento della quale si può solo ribadire, se mai ve ne fosse ancora bisogno, che alla signora Meloni non piace il confronto con la stampa. E anche questo non dovrebbe essere una novità.
Anzi non lo è affatto come si è potuto capire già da tempo. Gli esperti e i conoscitori della materia spiegano che questa idiosincrasia deriva dalla sua incapacità di controllare i nervi a fronte di domande scomode o contestazioni di qualsivoglia natura. Allora non c’è che l’annuncio a senso unico come le cassette videoregistrate che mandava il Cavaliere negli anni ruggenti del suo governo. E se poi si vuol risalire al vizio originale, il riferimento porta lontano: al tempo degli antenati che lei e, più di lei, alcuni esponenti della maggioranza sui cui si regge il suo governo e di cui lei non può fare a meno, faticano tanto a rinnegare. I quali i giornali li chiudevano, li bruciavano, bastonavano i direttori. Ma quello era il fascismo delinquenziale di un secolo fa. Oggi, i giornalisti, ci si accontenta di tenerli fuori della porta. 

(© 9Colonne - citare la fonte)