Un tempo l’estate era il momento del libero sfogo delle provocazioni politiche: li chiamavano “ballon d’essai” e si pensava servissero a buttare dei sassi nello stagno di un’estate in cui la gente, sotto l’ombrellone o sui monti, lasciava correre dando a quelle parole il peso inconsistente che avevano. Non è più così, un po’ perché i periodi di ferie si sono ridotti anche per i politici, un po’ perché nella pubblica opinione le preoccupazioni per il futuro crescono: sia quelle dipendenti dalle angosce esagerate a cui indulge la comunicazione, sia quelle che nascono da analisi più serie su una contingenza che non si capisce ancora come potrà evolversi.
Proprio per questo sarebbe bene che i politici imparassero a misurare le parole in vista delle scadenze che ci attendono. Un esercizio certo non facile con la pressione dei talk show e con la convinzione che se non si sta costantemente sotto i riflettori non si guadagnano voti. Eppure, come si è visto più volte, il buttarsi in spericolati esercizi retorici porta poi a vedersi chiedere conto di quel che si è promesso e delle intemerate sui più diversi argomenti propalate a piene mani. Sarebbe bene che tutti iniziassero a prendere in considerazione il fatto che in autunno dovranno misurarsi innanzitutto con la predisposizione del bilancio per il 2024. Tutti gli osservatori economici degni di questo nome avvertono di una banale verità: non ci sono risorse per distribuire mance elettorali e per tentare manovre populiste per guadagnare consenso. La nostra finanza pubblica ha margini di manovra più che limitati e il fatto è accresciuto dalla necessità di affrontare i costi delle catastrofi alluvionali nonché della congiuntura non certo favorevole determinata dal caldo eccezionale di luglio. Non possiamo certo permetterci di fare nuovo debito pubblico sia per i vincoli europei (e con la vicenda del PNRR abbiamo molti riflettori puntati su di noi) sia per un’inflazione che ancora non è domata e che ha riflessi pesanti sui tassi dei prestiti.
La situazione della guerra in Ucraina è piuttosto confusa. La Russia rafforza la sua strategia distruttiva con un evidente obiettivo di forzare la situazione: cosa comprensibile dal punto di vista di Putin che ha bisogno di affermare la sua “potenza”, ma estremamente pericolosa perché non è chiaro fin dove vorrà spingersi. E si dovrà anche tenere conto delle contromosse di Kiev che non può certo accettare passivamente questa escalation. Significa che si potrebbe avere anziché la ipotesi tante volte ventilata di una specie di stanca guerra che si trascina senza che nessuno dei contendenti forzi la situazione, una nuova fase di ricerca del colpo finale, da una parte e dall’altra, e si sa che quando le guerre prendono questi precipizi c’è poco da stare allegri. Del resto l’invocare fantasiose iniziative di pace non porta da nessuna parte, per la semplice ragione che anche quelle hanno bisogno di una “forza” che in questo momento nessuno ha. Dunque dobbiamo attenderci una fase molto tesa su quel fronte, il che, come si è visto, ha ricadute tutt’altro che trascurabili sulle vicende del mondo.
Molti invocano iniziative europee, ma queste richiederebbero un quadro più stabile nelle leadership dei 27 paesi aderenti, soprattutto nei principali. Non è tanto questione di come andranno le elezioni per il parlamento europeo il prossimo giugno: ha naturalmente la sua importanza, ma non così decisiva come si tende a far credere (l’interesse dei partiti, concorrendo ciascuno in proprio col conteggio proporzionale dei voti, è drammatizzare la situazione, ma non è esattamente così). Il pallino, per usare una metafora frusta, è nelle mani dei due organismi controllati dai governi, il Consiglio europeo e il Consiglio d’Europa: è in quel contesto che, per esempio, si scelgono il presidente della Commissione e il presidente europeo (i successori di von der Leyen e di Michelle), che poi certo devono essere ratificati dal nuovo parlamento, ma è una seconda battuta.
Ora la situazione a livello di governi non è proprio stabilizzata: Macron e Scholz hanno le loro difficoltà, la Spagna non si capisce ancora come uscirà dalla prova elettorale, ci sono le incognite delle votazioni autunnali in Polonia, terreno al momento non in mano esattamente a forze illuminate, e in Olanda dove si dà in crescita un movimento populista radicale di destra. Fare i conti con questa fase non sarà una passeggiata anche per una leader come Giorgia Meloni che pure sinora si è mossa con una certa abilità sulla scena internazionale.
A casa nostra la situazione non è delle più tranquillizzanti. La coalizione di destra-centro al governo è percorsa da tensioni fra le sue componenti, il che spinge tutti ad accentuare le fughe in avanti nella demagogia. L’opposizione di sinistra non trova pace per le spinte del massimalismo che è, se possiamo parafrasare una celebre formula, la malattia senile del progressismo in crisi di creatività. Una variante di centro riformatore non riesce a decollare per mancanza di leader che sappiano anche fare squadra.
Manca una opinione pubblica capace di costringere tutti i partiti a misurarsi con quello scenario che abbiamo tentato, sia pure sommariamente, di descrivere all’inizio. Certo quando si parla di cose serie in maniera seria si è contemporaneamente attaccati dai massimalisti che vedono messa in pericolo la loro posizione sulla scena e dagli ultra-realisti che amano sempre ricordare che i problemi profondi sarebbero ben altri (per dire che solo loro capiscono davvero i misteri del mondo).
Eppure di un bagno di realtà e non di parole al vento, per eccitanti che possano essere, ha bisogno il nostro paese che non potrà sfuggire all’appuntamento con la complessità che si va delineando nel quadro generale. Per questo ci permettiamo di suggerire sommessamente a tutti di stare attenti a come si parla.
(da mentepolitica.it )
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