I contratti a tempo determinato sono stati introdotti nella legislazione di molti paesi europei a partire da metà degli anni Ottanta e si sono diffusi rapidamente fino a raggiungere percentuali elevate. Il loro obiettivo principale era quello di introdurre flessibilità in mercati del lavoro ritenuti molto rigidi, grazie alla possibilità per le imprese di apporre un termine al contratto di lavoro e di licenziare il lavoratore senza costi aggiuntivi a scadenza. La flessibilità era considerata un elemento essenziale per rendere il mercato del lavoro dinamico ed efficiente, per ridurre gli alti tassi di disoccupazione (totale e giovanile) registrati in Europa rispetto agli Stati Uniti, e per aumentare la produttività e facilitare la crescita economica. In alcuni casi, l’aggiunta di incentivi di tipo fiscale (quali la riduzione dei costi di contribuzione) ha reso questi contratti una risorsa molto vantaggiosa per le imprese. In Italia, sono andate in questa direzione tre riforme del lavoro: legge Treu, decreto legislativo 368/2001, legge Biagi. Se l’obiettivo era anche quello di ridurre il lavoro nero, bisogna dire che, secondo i dati analizzati dall’economista Cristina Tealdi, non è stato raggiunto.
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