“I presidenti passano, i giornalisti restano”. Così rispose il famoso giornalista e conduttore televisivo statunitense Walter Cronkite rivolto al presidente americano Richard Nixon il quale avrebbe avuto più di un motivo per meditare sulla caducità del potere. Mezzo secolo dopo Giorgia Meloni e la sua impresentabile troupe di ministri e sottosegretari, farebbero a loro volta bene a riflettere su quella frase sempre che, ammesso che ne abbiano sentito parlare, non confondano il nome dell’autore con una qualche forma di affezione dei bronchi.
E invece si guardano bene dal farlo e tirano avanti giorno dopo giorno con la protervia esibita di chi è convinto di essere detentore di un potere illimitato nel tempo e nei contenuti. Ritengono di poter passare come salamandre nel fuoco degli scandali, refrattari a ogni civile confronto e inventandosi nemici e complotti come la sola risposta alle critiche, illudendosi così di legittimare comportamenti non proprio esemplari nell’esercizio della loro funzione.
Ciò non esclude che in molte democrazie -e meno male che ancora ce ne sono- i giornalisti siano guardati come una categoria utile ma per certi aspetti fastidiosa. Lo svolgimento del loro lavoro dipende quasi sempre dal grado di tolleranza di chi è oggetto delle loro attenzioni. Naturalmente questo non è un fenomeno solo italiano. Con qualche variante accade in quasi tutti i paesi anche democratici. Per restare in casa, un rapido sguardo al passato consente di individuare nella storia italiana momenti di maggiore o minore consapevolezza e rispetto dell’importanza dei giornali. Alla pluralità di voci e all’euforia per la riconquistata libertà di stampa con la lotta di Liberazione, come si può ricordare, hanno fatto seguito circa due decenni duranti i quali, con l’eccezione degli organi di partito, la comunicazione pur senza condizionamenti di rilievo, ha mostrato segni di torpore che però non hanno compromesso la sua capacità di esprimersi liberamente.
In qualche caso si è avvertita una certa tendenza verso forme più o meno vistose di autocondizionamento ma nel complesso non ci sono state coercizioni che abbiano impedito ai grandi giornali di restare nel solco di un’informazione sufficientemente autonoma rispetto al potere. Internet e i social hanno poi fatto il resto aprendo a forme inedite di comunicazione che hanno allargato gli spazi dell’informazione senza per questo mettere in discussione il ruolo dei giornali.
E’ questa la ragione principale che rende oggi anacronistico e rozzo l’atteggiamento della Meloni nei confronti della stampa. Non però inspiegabile, sol che si tenga conto delle radici politiche della presidente del consiglio, della sua formazione, e soprattutto, della comitiva con la quale governa e verso la quale mostra segni di insofferenza che non possono assolverla per il semplice fatto che è stata lei ad assortirla a sua immagine e somiglianza.
Nelle aule della Camera e del Senato i numeri di cui dispone sono tali da incoraggiarla in questa sua postura di prepotente sufficienza e insistita arroganza. Forse non ha o non si è data consiglieri capaci di avvertirla che in politica le stagioni del potere non sono eterne e che vale sempre la locuzione “sic transit gloria mundi”. Una gloria dal carattere effimero che rimanda al monito di Cronkite “I presidenti passano, i giornalisti restano”.
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