Il calcio è uno sport schiavista, giocato da moderni schiavi per altri servi contemporanei. E’ governato dai Landlord, coloro che possiedono grandi quantità di terra, di risorse, di case, di banche, di fabbriche, di finanza. Sono quelli che mandano il popolo in guerra, che esigono tributi, che spediscono a lavorare sui campi e nelle fabbriche, di coloro che sono sempre stati al potere qualsiasi regime politico imperi e che anche in questa epoca di simulacro di democrazia restano al comando. Sono sempre le stesse famiglie, hanno le stesse facce e i loro scagnozzi, i più schiavi di tutti, dicono agli altri cosa fare e cosa pensare.
Escludendo le sue forme primordiali e rinascimentali il calcio è stato inventato nella nazione apogeo della società occidentale già in parabola discendente e modellato sul modello della Roma già decadente del “panem et circenses”: far dimenticare a poveri oppressi la loro condizione, con un divertimento ben programmabile e a cui rivolgere il pensiero durante i tristi giorni della settimana.
Dando loro un “ideale” primordiale in cui credere: “la squadra”.
Il terreno di gioco e il tempo che governa la partita già dicono tutto e si basano sulle grandi finzioni (tempo e spazio) che governano le vite degli esseri umani. Il campo è delimitato: è un carcere, una fabbrica, un terreno da coltivare, una scuola. Il tempo è delimitato, non si sgarra: 90 minuti, otto ore di lavoro, (l’ex) periodo di leva, il ciclo scolastico, le cerimonie pubbliche e religiose a determinate e fissate età.
La schiavitù per essere tale non può fare a meno di finti tribunali e di finta amministrazione di giustizia. E così nel calcio dopo il giudice di primo grado abbiamo introdotto il secondo e adesso addirittura la Cassazione tecnologica. Ogni partita si perde in discussioni tra contemporanei Azzeca-garbugli che durano anni come ogni processo che si rispetti.
L’aspetto ludico, parte fondamentale del sentire degli esseri umani, è perduto. Cancellati per sempre sono i campetti e le partite in strade, con le porte fatte dalle maglie o dagli alberi, con la sorte a stabilire i compagni. Si inizia con le scuole calcio, massimi luoghi di incultura e si è subito intruppati con le divise, la maleducazione e la malvagità.
Talvolta, sempre più raramente, come nel carnevale, l’ordine stabile di questo spazio su cui scorre inesorabile il tempo, si ribalta. Arriva il tocco di genio, la giocata imprevedibile. Talvolta arriva uno Spartaco, come il geniale Diego, che però è destinato alla morte per divenire mito. Talvolta i suoi interpreti più sensibili, come Roby Baggio, si confrontano con quella che il prof. Ugo chiama “anoressia dello spazio” (e io aggiungo del tempo). Alla tua anima, al tuo essere non può più bastare un campo delineato da linee bianche e tiranneggiato da un orologio. E allora saluti la compagnia e vai a cercare un briciolo di inafferrabile verità nelle terre parzialmente selvagge dalla Patagonia.
La maggior parte degli schiavi non ha né la cultura, né il coraggio, né la sensibilità per comprendere che sono in catene. Nelle ombre della caverna si vedono uomini liberi, e comperano maglie e gadget della loro “squadra” e dei loro “idoli” per rafforzare il loro stato di schiavitù. Mi taccio su tutti i cantori di questa schiavitù, indeciso se reputarli sciocchi o in malafede.
Come il calcio sono gli altri sport “cosmopoliti” che hanno un campo limitato, tempo preciso, pubblico “metropolitano”. Resta l’eccezione del tennis (con le sue anticipazioni e derivazioni), sport nobile e all’inizio giocato da nobili o dai loro servi più forti che riesce in parte a farsi beffe del tempo e che porta in meandri della mente spesso inestricabili.
Poi ci sono gli altri sport che nascono dall’acqua, dalla terra, dalle montagne, dove si annullano tempo e spazio (nonostante i tentavi contemporanei di riportare tutto a sciocche unità di misura). Uno di questi, il più popolare, è il ciclismo.
Il ciclismo professionistico non è naturalmente esente da problemi, il principale dei quali è il doping. Ma la sua “anima”, i suoi “valori”, soprattutto nella pratica amatoriale restano intatti.
Quando inforchi la bici e ti avvii sulla strada non sai dove andrai, quando tornerai, chi incontrerai, cosa succederà. Prendere la strada è abbracciare l’avventura, trovare nuovi compagni, riscoprire il mondo che avevi perduto. Significa comprendere il nome dei paesi e delle persone, la morfologia del territorio, i sapori e i profumi che salgono dalla terra e dalle acque, comprendi davvero ciò che mangi e bevi, capisci o intuisci come l’incubo della storia abbia modellato gli uomini e i luoghi.
Su una strada in Irlanda, un giorno, con la mia compagna ci siamo avventurati su un passo che dal punto di vista altimetrico sembrava una banalità. Un cartello all’inizio della salita avvertiva: “Nonostante la bassa altitudine vi state inoltrando in un terreno che può presentare le difficoltà delle grandi vette alpine o dell’Himalaya. Il tempo può cambiare in pochi istanti e presentare condizioni estreme, salite a vostro rischio e pericolo, nessuno verrà a cercarvi”.
Sorridemmo, ma dopo pochi minuti capimmo che il cartello non scherzava. Prima cadde una pioggia furiosa, poi le nuvole ci avvolsero impedendo di vedere ad un metro davanti a noi. Presso la vetta sentimmo come delle grida, poi vedemmo un uomo, che scoprimmo essere americano, in ginocchio, a braccia aperte che ci implorava: “I’m lost”.
Da allevatori e domatori di bestie, che è la nostra genetica, lo scaldammo, lo rifocillammo e lo riportammo sulla retta via.
C’è sempre una “road to nowhere” e per intraprenderla bisogna “non essere normali”, sentire che è necessario rompere le finzioni dello spazio, del tempo, del “sociale” per riscoprirsi umani.
Il ciclismo è solo uno di queste attività, ne esistono addirittura di “superiori” e più estreme come il navigare a vela e l’alpinismo.
Ciò che fecero i grandi navigatori è proprio questo: avventurarsi in una “road to nowhere” per scoprire nuovi mondi, con tutto il bene e il male che ciò comporta.
Tutti i giorni, chi ha abbandonato le finzioni di tempo e spazio, si avventura su una strada senza meta e involontariamente scopre nuovi mondi.
Quello che è successo in questo week end, con la sconfitta della nazionale e il Tour de France in Emilia e Romagna ci ha dato una palpabile visione di questi due mondi: da una parte i poveri schiavi, dall’altra gli uomini liberi. Da una parte una moltitudine di individui rancorosi, pronti all’esaltazione fulminea e alla depressione momentanea, dall’altra un popolo autentico, solidale, consapevole della durezza e della bellezza, che ha riempito all’inverosimile le strade di un territorio con gioia e voglia di vivere autenticamente. Un’ulteriore conferma di quale meraviglia potrebbe essere un mondo di liberi.
Siamo figli di Dio e dell’Infinito, veniamo dalle stelle e un briciolo di divino è in tutti noi, e vogliono farci credere che siamo bestie ridotte in schiavitù.