In una recente intervista rilasciata a la Repubblica l’ex-Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha candidamente ammesso che negli ultimi decenni è mancata un’azione politica diretta ad una equa ripartizione dei benefici economici prodotti dalla globalizzazione. Come dire che la povertà è aumentata nonostante l’apertura globale dei mercati.
Di questa situazione, sotto gli occhi di tutti, costituisce testimonianza il fatto che una buona fetta di persone, che pur hanno un lavoro stabile, si trova sotto la soglia di povertà (come testimoniato più volte dalla Caritas). Il che ci riporta alla discussione in atto sul tema del salario minimo, discussione un po’ sparita dai radar, soverchiata da emergenze in apparenza più pressanti.
Non sembra inopportuno ricordare le regole che governano il problema del salario del lavoratore. Secondo l’art. 36 della Carta costituzionale il lavoratore ha diritto ad una retribuzione equa, cioè proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro ed altresì sufficiente a garantire a lui stesso ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Come si vede la Costituzione si preoccupa non solo del fatto che la retribuzione sia proporzionata (a ciascuno secondo il suo lavoro) ma anche che sia sufficiente a soddisfare i bisogni primari del lavoratore e della sua famiglia (a ciascuno secondo il suo bisogno), perché, come è detto chiaramente nella disposizione, ne va della sua libertà e della sua dignità.
Orbene questa norma costituzionale ha avuto una singolare sorte nel dibattito successivo alla sua entrata in vigore. È stata considerata (fin dai primi anni cinquanta, cioè poco tempo dopo l’entrata in vigore della Costituzione) come una norma precettiva, cioè non come una sorta di programma diretto al legislatore che avrebbe dovuto trovare i mezzi attraverso cui attuarla in concreto, ma come una norma immediatamente spendibile nelle aule di giustizia. In sostanza, sulla base di questa direttiva, il lavoratore può chiedere direttamente al giudice la determinazione della retribuzione equa e sufficiente.
E questo hanno fatto i nostri giudici: si sono assunti l’onere di determinarla, ma per farlo hanno dovuto far ricorso all’unica fonte disponibile come “tariffario del lavoro”: i contratti collettivi. Per questa via i contratti collettivi hanno assunto una sorta di efficacia generalizzata, ad onta dell’inattuazione dell’art. 39 della Costituzione (che avrebbe assicurato il medesimo effetto per via legale). Si può quindi dire che per molti decenni l’autorità salariale è stata (indirettamente) la contrattazione collettiva, se pure per il tramite della mediazione giudiziale. Era questa in sostanza la via italiana al salario minimo, laddove in altri ordinamenti questo è fissato per legge o per atto amministrativo.
Sennonché le tumultuose vicende dell’economia dell’ultimo decennio hanno sconvolto questo assetto consolidato, essendo apparsi all’orizzonte i cosiddetti contratti “pirata”, contratti cioè sottoscritti da compiacenti associazioni sindacali, sfornite di rappresentatività effettiva, che hanno fissato minimi contrattuali al di sotto della soglia di sussistenza. La questione è così tornata sul tavolo dei giudici, che non hanno mancato di assumersi nuovamente la responsabilità di svolgere l’ennesima opera di supplenza. Hanno così ritenuto che, di fronte a retribuzioni palesemente insufficienti secondo il parametro costituzionale, il giudice può utilizzare qualsivoglia fonte per determinare un salario adeguato: e quindi, ad esempio, gli indicatori economici e statistici utilizzati per misurare la soglia di povertà (l’indice ISTAT, i dati Uniemens per il calcolo del salario medio), il valore della NASPI (assicurazione contro la disoccupazione), i trattamenti di integrazione salariale in presenza di sospensione dell’attività, etc.
Ecco dunque che l’autorità salariale è tornata saldamente nelle mani dei giudici, nella latitanza del legislatore e delle parti sociali. Ed ecco – ahimè – l’ennesima conferma di un sistema bloccato.
- Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa