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I partiti alla ricerca del sistema elettorale perfetto

I partiti alla ricerca del sistema elettorale perfetto

di Paolo Pombeni

Mentre il mondo aspetta con ansia di vedere se almeno a Gaza ci sarà qualche spiraglio di miglioramento e mentre l’Europa attende di misurarsi con le decisioni di Trump sui dazi, i nostri partiti ragionano ormai con la testa alle prossime elezioni politiche che si terranno, salvo imprevisti mai esclusi, ad inizio del 2027. Certo in mezzo ci sono le cinque regionali d’autunno (Veneto, Toscana, Marche, Puglia e Valle d’Aosta) ma sono vissute come una specie di premessa, non più significativa di tanto, a quelle visto che ormai i risultati a livello locale non si trasferiscono automaticamente in sede nazionale. Certo le coalizioni contano di sfruttare quegli esiti a livello “motivazionale” per rafforzare la propria immagine di forza (o di declino), ma sanno bene che vale fino ad un certo punto.
Si ritiene che in un sistema che difficilmente vedrà un significativo incremento della partecipazione elettorale a decidere saranno gli spostamenti che possono determinarsi fra i due campi. Lasciando da parte il mito del Centro determinante, in quanto lo si intenda come una aggregazione specificamente “centrista” di nuovo conio, si ragiona sul fatto che una quota abbastanza significativa di elettori possa spostarsi dal sostegno alla destra a quello alla sinistra o viceversa, oppure, ma sembra più complicato, che i partiti in campo possano ripescare consensi dispersi nella massa considerevole degli astenuti. Si studia dunque come ciascuno possa riuscire in quest’impresa, evitando che ne possano beneficiare gli avversari. Qui il punto dolente per tutti è come sia possibile tenersi saldi i consensi tradizionali acquisiti senza che con ciò si alzino barriere per andare alla conquista di nuovi elettori. Detto in parole povere: per tenersi ciascuno la propria tribù di fedeli sembra necessario rafforzare gli appelli identitari, ovvero più o meno radical-estremisti; per attirare nuove adesioni quella tecnica funziona male, perché tutti sanno che è abbastanza un mito che gli elettori abbiano abbandonato un partito perché non era abbastanza radicale.
Ora le due tecniche su cui si punta sono abbastanza alternative fra loro. La prima è favorire il formarsi di coalizioni-ammucchiata, dentro cui ogni votante può trovare di tutto, dall’estremista al moderato. Sin qui si è cercato più o meno di fare così, con risultati altalenanti, perché funziona se si può immaginare che ogni componente condizioni pesantemente le altre, ma il prezzo è una sorta di litigio continuo che non consente di fare politica se si è al governo e che dall’altro lato per le stesse ragioni impedisce di fare opposizione efficace. Il problema aggiuntivo è che con questo sistema si è alimentato cosiddetto maggioritario col collegio uninominale. In questo caso si deve negoziare fra i partiti la spartizione dei candidati fra le varie componenti con tutti i problemi di disomogeneità che ciò ha comportato. Per rompere questo schema si ragiona se non convenga tornare al meccanismo di distribuzione proporzionale dei consensi. Così si permette a ciascun partito di accentuare la sua identità e i pesi nel successivo gioco parlamentare, vuoi per il governo, vuoi per l’opposizione, si decidono a posteriori sulla base dei risultati che ciascuno ha raccolto nelle urne.
Indubbiamente una nuova legge elettorale a carattere proporzionale favorirebbe una maggiore pulizia nella formazione delle liste, non da ultimo perché consentirebbe di sottrarsi alle scelte imposte dai vertici dei partiti: infatti quelle componenti penalizzate dalla direzione potrebbero più facilmente staccarsi e fondare nuove formazioni o accasarsi altrove. Incentiverebbe la frammentazione politica, ma probabilmente non più di tanto. Il vero nodo da sciogliere per una soluzione di questo tipo è dato dal fatto che si tornerebbe, anche senza dirlo, ad una dinamica in cui i governi si formano con negoziati in parlamento dopo le elezioni. Il modo per evitarlo può essere l’obbligo di indicazione sulla scheda di chi sarà il candidato premier sostenuto dal partito: così ci si vincolerebbe ad una qualche forma di coalizione definita preventivamente. Al momento una soluzione di questo tipo sembra andare bene al destra-centro, che in Giorgia Meloni ha un leader indiscutibile per consensi in quell’area, ma creerebbe problemi al cosiddetto “campo largo” che una figura di quel tipo proprio non ce l’ha: non solo per la competizione fra Schlein e Conte, ma anche per il fatto che nessuno dei due è neppure lontanamente “indiscutibile”. Ciò rende problematica l’accettazione di una riforma elettorale in senso proporzionale con indicazione del candidato a premier.
Naturalmente per evitare il ritorno comunque alla logica dei governi che si fanno e si disfano in parlamento, il destra-centro propone il premio di maggioranza alla coalizione intorno al candidato vincente, che raccolga almeno il 40% (forse aumentabile di qualche punto) dei consensi. Nel caso quel candidato premier perdesse la fiducia della Camera si tornerebbe a votare.
Ci sono molte questioni tecniche che si possono porre a proposito di tutto il dibattito in corso, per ora a livello abbastanza astratto. Il problema di fondo è però che ancora una volta la classe politica pensa di risolvere la sua debolezza scaricando la responsabilità sugli elettori a cui si chiede di arbitrare una crisi di sistema, ma sulla base di una legge elettorale pensata in modo da non nuocere alle posizioni dei partiti. Il che è pretendere un po’ troppo.
(da mentepolitica.it)

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