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Dazi: i calcoli (sbagliati) del pokerista Trump

Dazi: i calcoli (sbagliati) del pokerista Trump

di Paolo Pombeni

Il pirotecnico Donald Trump si è esibito in una ulteriore serie di prese di posizione: stavolta a tornare al centro è la questione dei dazi da imporre ai paesi che esportano negli USA, non importa quale sia il rapporto fra essi e Washington. Il focus è ora sull’Unione Europea i cui paesi membri sono accusati di aver vampirizzato per lunghi decenni l’economia americana.
Come sempre ci si chiede quale sia la portata di queste esternazioni, se siano sceneggiate momentanee o espressione di una strategia che va consolidandosi e di conseguenza quali debbano essere le reazioni dei paesi europei, sia singolarmente considerati sia come parte della UE.
Per capire va sempre tenuto presente che per Trump tutto si tiene: politica internazionale, politica economica, politica interna sono componenti di un unico mescolone, la sua visione del mondo di cui si sente il vero arbitro. Il tycoon è coerente, perché questa è stata la base della sua campagna elettorale e su questo ha raccolto il suo ampio, ma variegato e variopinto consenso. Ora la base della sua richiesta di una specie di pieni poteri è nella promessa di risolvere grandi problemi, perché questo ha fatto grande l’America in momenti storici decisivi (idealizzati e in parte inventati) ed è colpa grave dei precedenti presidenti non essere più stati all’altezza di questo compito. Perciò Trump aveva indicato due grandi obiettivi: risolvere rapidamente le guerre senza senso che a suo giudizio inquinavano il mondo (addirittura in 24 ore); riportare l’economia americana gravata da un grosso deficit e in crisi di de-industrializzazione ai fasti dell’età in cui essa dominava il mondo.
Non ci vuole molto sforzo per vedere che sul primo fronte l’inquilino della Casa Bianca al momento incontra un grande fallimento. La guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina non si riesce a fermare, neppure concedendo molto a Putin, per la semplice ragione che lo zar di Mosca vuole l’annientamento dello stato di Kiev, sia perché questo è un obiettivo del suo imperialismo, sia perché senza questo non saprebbe come spiegare tre anni e mezzo di guerra che hanno avuto costi troppo alti per giustificare una semplice espansione territoriale. Sembra che, sia pure tardivamente, Trump si sia reso conto di avere sbagliato i calcoli con la Russia, sicché per costringere Mosca a chiudere la partita ripiega sul ritorno al sostegno militare all’Ucraina. Concede a Putin 50 giorni di tempo per verificare se può davvero stroncare definitivamente la resistenza di Kiev (altrimenti non si giustificherebbe un periodo così lungo), ma al tempo stesso permette un riarmo apparentemente sostanzioso a Zelensky, pur mettendone i costi in carico alla Nato (ma anche questo è un messaggio subliminale a Mosca: vedete che alla fine con il vostro rifiuto ad una pace di compromesso avete riportato la Nato ai vostri confini).
Analogo fallimento sostanziale dei piani originari del tycoon si incontra nella questione israelo-palestinese. Anche qui non solo non è riuscito ad imporre una cessazione delle ostilità, ma deve sopportare il prezzo della catastrofica politica di Netanyahu che si è infilato in una guerra di sterminio da cui non sa come uscire, il che sconvolge qualsiasi prospettiva seria di stabilizzazione del Medioriente (cosa che a Trump interessava per ragioni di espansione economica verso il mondo arabo, che non può accettare per evidenti ragioni una politica di estirpazione della questione palestinese).
Di fronte a questi fallimenti nella politica del “Make America Great Again”, per il presidente americano si pone il problema di come consolidare il suo mito presso un elettorato che sembra non più così compatto. Cerca di farlo rilanciando la leggenda degli USA, una potenza generosa che si è dissanguata per farsi carico di tutti i guai del mondo, mentre i beneficati si arricchivano alle sue spalle. Naturalmente questa leggenda non ha alcun fondamento reale, ma incontra un modo di ragionare diffuso, sostenuto dalle vicende dalla presenza “imperiale” che gli USA hanno in qualche modo esercitato dalla guerra fredda in avanti.
Così Trump pensa di compattare il suo elettorato mostrandosi come il vendicatore delle spese affrontate a favore degli altri. Il mezzo sarebbe una politica dei dazi destinata nel suo immaginario sia a portare grandi risorse finanziarie al bilancio federale, sia a costringere una quota dell’economia mondiale a tornare a produrre negli USA ridando fiato al suo mercato del lavoro.
Gli analisti hanno in vario modo dimostrato la velleità di questa politica daziaria e soprattutto i rischi che essa comporta per l’economia americana e di riflesso per l’economia mondiale, ma al tycoon questo non interessa, perché il suo obiettivo è rinforzare una politica di annuncio che possa manipolare il consenso interno: per questo ha bisogno della postura da bullo che connota le sue esternazioni. La gestione concreta di quanto proclama è quanto mai flessibile, come si è verificato sino ad oggi e questo spiega una reazione abbastanza fredda da parte dei governi oggetto delle sfide sui dazi: tutti pensano che, trattandosi di strategie di comunicazione, ci sia spazio per negoziare e per raggiungere accordi: tanto a Trump alla fine basta poter dire al suo elettorato che lui ha messo tutti in riga.
Purtroppo le cose non sono così facili, perché anche le politiche di esternazione e propaganda hanno costi e costruiscono vincoli. Proprio quanto avviene in Russia e in Israele potrebbe far riflettere i gruppi dirigenti di Washington che poi a proclamare obiettivi “storici” (e mirabolanti) si costruiscono catene da cui non ci si riesce a liberare. Potrebbe finire così anche nella partita di poker sui dazi e sarebbero problemi di notevole portata.

(da mentepolitica.it)

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