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ALDO NOVE, LE LETTERE CHE CONTANO

ALDO NOVE, LE LETTERE CHE CONTANO

Nel non presupporre un ulteriore Aldo Dieci, Nove resta l’unico scrittore che preferisce le unità alle decine, dichiaratamente e fin dallo pseudonimo (sulla patente c’è scritto Antonio Centanin). Anche il suo esordio narrativo malcelava un’intenzione di semplicità, con quella raccolta di acidi racconti con acida copertina fluo made in Castelvecchi, “Woobinda e altre storie senza lieto fine” (1996). Racconti che però – semplici fino a un certo punto - erano elettrici e appena li toccavi prendevi la scossa (incipit divenuto di culto per i lettori di quella generazione: "Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure&Vegetal"). Erano gli anni della gioventù cannibale, che a ben vedere, a quasi due decenni di distanza, ha divorato solo se stessa. Erano anni efferati – facile vedere nel primo racconto la stessa fredda pazzia di Erika che uccise la madre e il fratello con l’aiuto del fidanzatino Omar – o meglio, erano anni in cui dell’efferatezza ancora ci si accorgeva, tanto che poteva diventare una poetica. Già un po’ dopo, Olindo e Rosa (binomio perfetto per una serie su Fox Crime), o Annamaria Franzoni, avrebbero dato materiale solo per “Porta a Porta” e per certi periodici. Aldo Nove era già altrove. Aldo Nove era altrove perché è un poeta, perché legge i classici latini e greci (come suggeriva Italo Calvino), perché è laureato in filosofia, e perché: “Quanto ai Cannibali, dico che furono una cosa bellissima, la letteratura che si sposava con l' attualità, io, Scarpa, Ammaniti, Isabella Santacroce eravamo come dei compagni di viaggio e scrivevamo le cose che ci stavano succedendo”. Non è dunque inopportuno curiosare sulla sua seguitissima pagina di Facebook, per vedere che rapporto conservi col presente, con ciò che sta succedendo ora. “Mi sembra evidente che tra dieci anni o meno i giornali non esisteranno più. Ci saranno, per gli appassionati e per eventi particolari, degli ‘oggetti’ simili, ma non esisterà più il periodico, quotidiano o con qualunque altra periodicità, com'è inteso oggi. Non esisteranno più le edicole, che del resto già chiudono una dietro l'altra. E lo strepito terminale che cercano di fare oggi i giornali è penoso. Il lamento dell'animale morente”, scrive lunedì 21 ottobre. Oppure: “A Shanghai una coppia ha barattato un figlio per un iPhone 5. A dimostrazione ulteriore (se ce ne fosse bisogno ancora) che il berlusconismo è solo uno degli infiniti aspetti di un rincoglionimento mondiale molto più articolato”, poco prima. Sul suo primo libro ebbe modo di dire: “Quando scrissi Superwoobinda, alcuni anni fa, volevo delineare una generazione priva di futuro. Il futuro, purtroppo, è arrivato”. Purtroppo è arrivato. Tra i resti della civiltà cannabile, la letteratura italiana figura pallidamente non assorta, quasi non contemplata. Ma è sopravvissuta lo stesso. Anche quando Nove usa il social network per commentare un vacuo dibattito sul Nobel: “Preferisco guardare documentari sulle dinamiche di spostamento delle formiche rosse al posto di qualunque cosa che riguardi la letteratura”. Eppur si muove e per fortuna la fa. Nel 2006 scrisse: “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, indagine sulla precarietà, altra stimmate del presente. L’ultimo libro invece è un racconto biografico di Mia Martini, “Mi chiamo…”, edizioni Skira. Nove è sempre due cose, è scientificamente ipermoderno (alto e basso, pop ed esperimento), almeno da quando ha 10 anni: “Alle medie ho fatto due incontri fondamentali: la poesia contemporanea e i giornalini porno”. Ma i giornali non esisteranno più e “lo strepito terminale che cercano di fare oggi”, ci fa ripiegare sulla prima, nata morta, e dunque eterna, poesia. (Valerio de Filippis)

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