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Quarant’anni di 194
una legge per le donne

di Patrizia Veclani

“Una gravidanza non desiderata è un’aggressione biologica (e, ovviamente, culturale e politica) inferta alla donna, per cui il principio a cui lei ricorre per liberarsene è soltanto un principio di legittima difesa. Non è detto che una donna sia una cattiva madre del figlio non desiderato, ma certamente essere stata costretta a anteporre la vita di un altro essere alla sua ha un effetto distruttivo sulla sua identità”. Così scriveva la scrittrice e attivista femminista Carla Lonzi nel 1975 in un articolo in difesa dell’aborto libero e in opposizione alla sua regolamentazione dall’alto. Siamo nel pieno del dibattito che divide oppositori e sostenitori della legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Un dibattito non solo esterno, come è noto, ma anche interno ai gruppi femministi, accomunati però dalla consapevolezza di quanto fossero dure per le donne le condizioni dettate dalla clandestinità in cui allora si interrompevano le gravidanze. Si dovette aspettare il 22 maggio 1978 per avere anche in Italia una legge che permettesse di farlo in sicurezza e legalità.
La 194 rappresentò, comunque, il frutto di una mediazione tra istanze che derivavano da posizionamenti diversi. Tra gli articoli più controversi che ne risultarono vi era la certificazione obbligatoria per poter effettuare l’IVG, la necessità di far trascorrere una settimana tra detta certificazione e la richiesta di intervento e, soprattutto, la possibilità per i medici di astenersi dalle prestazioni per obiezione di coscienza. Il clima politico in quegli anni era così arroventato che il legislatore dovette prevedere un monitoraggio dell’implementazione della legge nel corso del tempo: si trattava, in particolare, di controllare che non si facesse ricorso all’ivg al pari di un metodo contraccettivo. Si andava cioè paventando l’idea che la legalizzazione dell’aborto ne avrebbe favorito la diffusione.
Prima della sua legalizzazione, le stime dell’aborto (clandestino) riportano tra i 220mila e i 600mila casi all’anno. A suggerire questa quantificazione è il fatto che il numero di notifiche di aborto spontaneo, un modo spesso utilizzato per coprire complicazioni dovute a un aborto procurato, crollò dopo l’entrata in vigore della legge (meno di 57mila nel 1985). Negli anni subito successivi alla legalizzazione si assistette a una graduale emersione del sommerso, caratterizzata da una certa discontinuità dal momento che i servizi si andarono attivando a macchia di leopardo sul territorio nazionale almeno fino al 1984. Da questa data in poi e fino ad oggi, il ricorso all’aborto è progressivamente diminuito su tutto il territorio, con un solo periodo (dal 1996 al 2004) in cui il tasso di abortività è rimasto pressoché costante. Il calo è dunque netto: se nel 1982 il tasso di abortività era di 17,2 IVG ogni 1.000 donne di 15-49 anni, nel 2016 questo scende a 6,5, ponendo l’Italia tra i Paesi occidentali a più bassa abortività. Appare quindi assodato che il calo del tasso di fecondità nel nostro Paese non è dovuto alla legalizzazione della IVG. Questa è da attribuirsi, piuttosto, alla diffusione di metodi contraccettivi efficaci.
In 40 anni di vita della legge 194 sono intervenuti, d’altra parte, notevoli cambiamenti sociali e culturali nel Paese, segnati da una sempre maggiore scissione tra sessualità, da una parte, e procreazione, costituzione di una famiglia o di un legame di coppia, dall’altra. L’età mediana al primo rapporto sessuale si è abbassata da 22 a 18 anni e una quota sempre più ampia di donne ha rapporti prima dei 16 anni (dal 4,5% al 20% circa)³. Contestualmente si è alzata l’età al primo figlio. È chiaro quindi che i comportamenti contraccettivi hanno coperto un periodo della vita sempre più ampio di generazione in generazione. Inoltre, si sono diffusi metodi più efficaci: se nel 1979 il metodo maggiormente utilizzato dalle coppie era il coito interrotto (46%), nel 2006 si preferiscono la pillola e il profilattico (24% e 19%)[4]. La gravidanza indesiderata, d’altronde, giunge nella stragrande maggioranza dei casi in seguito al fallimento di un metodo contraccettivo: la IVG non ha rappresentato dunque, come alcuni avevano paventato, uno strumento di controllo delle nascite in sostituzione alla contraccezione.
Nel corso degli anni le diminuzioni più rapide dei tassi di abortività hanno riguardato le donne più istruite, le occupate e le coniugate. Per contro, oggi le donne straniere mediamente ricorrono all’aborto volontario molto più frequentemente delle italiane (circa due-tre volte tanto) per tutte le classi di età. Si tratta di un trend che tuttavia pare aver già avuto il suo apice e che ora appare in diminuzione.
Come detto in precedenza, il primo passo per la donna che voglia effettuare un aborto volontario deve essere la certificazione; oggi, nel 42,9% dei casi ci si rivolge al consultorio familiare oppure a un servizio di ostetricia e ginecologia (31,7%) per ottenerla. Sono le donne straniere (54,5%) a fare più ricorso al servizio consultoriale, poiché a bassa soglia di accesso. Aumenta la percentuale di interventi avvenuti su certificazione d’urgenza (che consente di evitare l’attesa di 7 giorni per poter chiedere l’intervento), salita al 17,8% dei casi (era del 9,4% nel 2005). Questo aumento può essere dovuto all’esigenza di contrastare lunghe liste d’attesa oppure alla volontà di effettuare l’intervento in modalità farmacologica (che per la normativa italiana deve avvenire entro i primi 49 giorni di gestazione).
La quota di IVG “precoci”, ovvero avvenute entro l’8° settimana gestazionale, sale al 46,8% (era il 38,4% nel 2005). Accanto a questo dato, indubbiamente positivo, si affianca però l’aumento anche degli interventi eseguiti oltre la 12° settimana di gestazione, dovuti a esiti sfavorevoli delle indagini prenatali: 5,3% contro il 2,7% del 2005. In ogni caso, oggi il 66,3% delle donne effettua l’intervento entro due settimane dalla certificazione, un dato in miglioramento (era il 58% nel 2005), ed è diminuita la percentuale di chi aspetta più di tre settimane (12,4% contro il 16,4% del 2005).
Tutti questi fenomeni, che a livello nazionale mostrano complessivamente un andamento in progressivo miglioramento, anche se non privo di luci e ombre, vanno calibrati alla luce delle articolazioni regionali e locali che spesso differiscono fortemente tra loro creando condizioni assai disuguali nel Paese . Anche nella stessa regione coesistono spesso strutture virtuose in grado di ottemperare alle prescrizioni di legge in maniera egregia e altre più arretrate. In conclusione, appare chiaro che quegli elementi di criticità della 194 che furono oggetto di ampio dibattito quando questa legge vide la luce hanno mostrato i loro effetti nel corso di questi quarant’anni. E’ grazie comunque al volonteroso lavoro e alla coscienza di molti operatori e operatrici, medici e mediche, e alle donne che l’hanno sostenuta se finora quella legge ha avuto comunque le gambe per correre più in fretta dei suoi ostili avversari.

(da .neodemos.info)

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