Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Le parole della politica
Impegno per rinnovarle

di Paolo Pagliaro



L’intervento del direttore di 9colonne alla Summer School di Scuola di Politiche

(15 settembre 2019) Il panorama politico è cambiato all’improvviso e tutti facciamo un po’ fatica a orientarci. La nuova stagione potrebbe offrire però la straordinaria opportunità di cambiare anche il guardaroba dei pensieri e delle parole pubbliche. E di questo mi vorrei occupare, e lo farò in non più di dieci minuti.

Molti di voi conosceranno quel libro intitolato “Non pensate all’elefante”, scritto da linguista americano George Lakoff e in Italia pubblicato con la prefazione di Carofiglio. La tesi è che se qualcuno vi chiede dapprima una volta e poi con insistenza di non pensare all’elefante, voi farete per forza il contrario: inevitabilmente penserete all’elefante. Lakoff ha usato l’immagine dell’elefante per dimostrare l’importanza delle parole nella comunicazione politica e voleva dire che i Democratici non avrebbero mai vinto fino a quando , più o meno consapevolmente, avessero accettato le parole, la visione e l’agenda dei Repubblicani (che in America sono appunto il partito dell’elefante).

E’ un po’ come se – per ipotesi - in Italia qualcuno vi parlasse tutti i giorni e tutto il giorno di migranti. Anche voi non potreste fare a meno di pensarci e di parlarne, con gli amici o sui social, anche se non sono i migranti il principale problema vostro e del vostro paese. Magari il problema principale vostro e del vostro paese è il lavoro che non si trova, i ghiacciai che scompaiono, le mafie, il bullismo, l’amicizia, l’istruzione, l’amore, il potere degli algoritmi, il controllo dei big data, l’ascensore sociale da anni fuori servizio. Penso che anche voi sappiate che il problema principale non sono gli immigrati.

Quello che ci voleva dire Lakoff e che è sotto gli occhi di tutti è che in ogni sfida politica vince chi riesce a comunicare i propri valori, a imporre la propria agenda, a far circolare le proprie parole. E poiché questa è una scuola di politiche, credo che qui abbia diritto di cittadinanza l’invito a impegnarsi sul fronte delle parole, per rinnovarle, mutarne la gerarchia, imporre le proprie. Sapendo che la storia la fanno spesso proprio le parole, comprese quelle che all'uomo pubblico "scappano dette", e che – come osservava il grande Vittorio Sermonti – ci dicono molto della sua intelligenza, ignoranza, lealtà, volgarità, molto più di quello che vorrebbe e saprebbe dirne lui.

La partigiana e senatrice Lina Merlin propose e ottenne non senza fatica l’inserimento della parola “sesso” nell’articolo 3 della Costituzione e con sole quattro parole – “senza distinzione di sesso” – cambiò così la storia delle donne e anche della nostra repubblica.

Si tratta dunque di imporre le nostre parole e non subire quelle degli altri.
La prima parola che dovremmo ripristinare è INTEGRAZIONE.
E’ una parola scomparsa, rimpiazzata da rifugiato, esiliato, clandestino, immigrato, migrante, extracomunitario, straniero, profugo, richiedente asilo, irregolare. Molti italiani sono stati indotti a pensare che i fuorilegge più pericolosi siano i cosiddetti migranti economici, quasi che mettersi in cammino per migliorare la propria vita e quella dei propri figli fosse un grave crimine. Quasi che non ci fossero stati, nel recente passato, circa 30 milioni di migranti economici italiani, che non fuggivano da guerre e carestie, ma più semplicemente dalla povertà.

Integrazione è una parola da tempo impopolare, nonostante in Italia ci siano 6 milioni di stranieri regolarmente residenti e alcune centinaia di migliaia che ogni anno lo diventano perché hanno maturato i requisiti. Sono integrati perché lo hanno voluto con caparbietà e perché decine di migliaia di insegnanti si sono messi a diposizione per facilitare l’inserimento dei loro figli e accompagnarne la crescita. L’integrazione di milioni di stranieri è stata resa possibile da uno straordinario impegno corale della scuola italiana, ma anche del sistema sanitario, della Chiesa, del volontariato e di una parte rilevante dell’amministrazione pubblica, come sa chiunque frequenti un ambulatorio della asl, uno sportello dell’anagrafe o un ufficio passaporti.

I cosiddetti decreti sicurezza hanno invece tagliato i fondi per l’insegnamento dell’italiano, smantellato i centri di accoglienza straordinaria dimezzandone il personale, abolito i corsi di formazione professionale, cancellato l’assistenza psicologica e ridotto di due terzi il numero dei mediatori culturali, azzerati gli stanziamenti per le attività sportive, ridotto al minimo la presenza degli assistenti sociali e le prestazioni sanitarie. Agli ospiti dei centri di accoglienza si propone di non far nulla, di arrangiarsi per mesi o anni in attesa che sia accolta o più probabilmente respinta la domanda d’asilo. Sono state messe all’indice le prefetture che avevano puntato sulle buone pratiche, come quella di Rieti che aveva imposto ai migranti la partecipazione a corsi di lingua italiana per un minimo di 10 ore settimanali; o come quella di Ravenna che proponeva agli ospiti laboratori professionali e attività di volontariato a favore della città. Integrazione è diventata una parola tabù. Riportiamola alla luce e ridiamole la dignità e la visibilità che le spettano.

Liberiamoci invece di tutte le parole stupide che ci hanno accompagnato in questi anni. Liberiamoci dello STORYTELLING, che sarebbe l’arte di cercare il consenso con espedienti narrativi. Vince chi la racconta meglio, mentre sarebbe necessario badare alla sostanza. Riprendiamo l’abitudine di misurare la distanza tra le parole e i fatti.

Liberiamoci della retorica sulle PERIFERIE. Periferia è un punto di vista. Per chi ci è nato e cresciuto, quello è il centro. E se nell’immaginario di molti intellettuali e di molta classe dirigente le periferie sono un deserto culturale da cui tenersi a debita distanza, nella realtà le periferie – cioè i luoghi dove vive il 60% della popolazione - sono spesso incubatori di creatività e innovazione sociale. E’ il loro punto di vista sul mondo che ci interessa, non il nostro su di loro.

Quando parliamo di politica mettiamo al bando la parola POLTRONE. La parola INCIUCIO. La parola MANGIATOIA. Non usiamo a sproposito la parola GOLPE. Hanno tutte un’impronta autoritaria, hanno in comune il disprezzo per la democrazia e le sue regole. Non sono inciuci gli accordi tra partiti, non sono poltrone le responsabilità politiche, non sono golpe i cambi di maggioranza, non sono mangiatoie gli incarichi di governo e non lo è il Parlamento.

A proposito del quale, occorre sapere che i deputati non vanno in pensione a 55 o 60 anni, ma a 65. Che dal 2005 a oggi le loro indennità non sono aumentate ma sono diminuite del 10%. Che i vitalizi sono stati eliminati nel 2012 e sostituiti con un sistema di tipo contributivo. Che la Camera ha 9 auto di servizio e non alcune centinaia come si è scritto, e ha circa 1.200 dipendenti, più o meno come il Comune di Perugia. Che le sedute di norma avvengono 5 giorni a settimana per 4 settimane al mese, alla buvette di Montecitorio il caffè costa come in ogni bar della città e non è vero che ciascun deputato abbia in dotazione una tessera per andare gratis al cinema. Tutto un po’ diverso dal sentito dire.
Il palazzo della casta raccontato dalla retorica dell’antipolitica rispecchia un antico sentimento che ha attraversato la storia dell’Italia unita fin dai suoi albori, con la polemica antiparlamentare della Destra storica, poi del partito comunista di Amedeo Bordiga, poi ancora con il discorso di Mussolini sul bivacco di manipoli nell’aula sorda e grigia e infine con l’immagine grillina del Parlamento da disigillare con l’apriscatole, come si fa con i barattoli di tonno.

Diffidiamo anche di chi dice CI METTO LA FACCIA. Quel “metterci la faccia” appartiene anch’esso alla retorica antiparlamentare che ha fatto irruzione nel linguaggio pubblico. E’ diventato l’emblema della personalizzazione della politica e del potere, mentre noi avremmo bisogno non di facce ma di pensiero e di coraggio. E poi, quanta esagerata autostima c’è in quell’annuncio – ci metto la faccia - che non si capisce bene se sia una promessa o una minaccia.

Un cenno, per concludere, a una parola che immagino sia cara anche a voi, INFORMAZIONE. E’ una parola che andrebbe in un certo senso rifondata, per distinguerla da quelle che suonano simili ma che sono in realtà delle contraffazioni. La più insidiosa delle imitazioni si chiama COMUNICAZIONE. Chi le confonde dimentica che la comunicazione ha come suo obiettivo la persuasione, mentre l’informazione ha come suo obiettivo la conoscenza. Sono due obiettivi radicalmente diversi. Oggi c’è un eccesso di comunicazione e una carenza di informazione. Qualcuno ha notato che si sono moltiplicati gli uffici stampa mentre sono diminuiti gli uffici studi. Dovremmo invertire la tendenza, e con la vostra scuola mi pare si vada nella giusta direzione.

(© 9Colonne - citare la fonte)