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direttore Paolo Pagliaro

Sostenibilità e attivismo
così parlano le aziende

La comunicazione, soprattutto quella d’impresa, ha conosciuto una autentica rivoluzione negli ultimi anni, nei quali sono emersi concetti chiave come reputazione e sostenibilità. Abbiamo analizzato brevemente scenari passati e futuri con la professoressa Simonetta Pattuglia, docente di Marketing, Comunicazione e Media all’Università di Tor Vergata a Roma.


Professoressa Pattuglia, è molto cambiata la comunicazione d'impresa negli ultimi anni?
«Direi radicalmente, ci sono alcuni cambiamenti fondamentali, dei megatrend della comunicazione aziendale. Il primo è il passaggio da una comunicazione image centred a reputation centred, ovvero alla creazione della reputazione tramite la comunicazione, insieme ad altre leve. Ed è davvero la chiave di volta, il cambiamento più sconquassante. Si è passati dal pensiero che la comunicazione sia centrale e onnipotente al fatto che sia invece fondamentalmente una facilitatrice rispetto ad altre leve, come avere un buon servizio o prodotto, un management di alto livello, dei buoni fondamentali economici, la necessaria attenzione verso sostenibilità e innovazione e – anche - una bella immagine. La reputazione dunque è diventata essenziale, nel momento in cui internet e i social media sono diventati così pervasivi. La reputazione viene sempre misurata on the web, anche quella che viene comunicata offline viene poi commentata attraverso l'online. Il secondo megatrend è la sostenibilità. Si è passati da una sostenibilità che poteva essere poco comunicata venti anni fa, a una sostenibilità pretesa da parte delle imprese, soprattutto dal consumatore che esige dall’azienda un’attenzione a tutto tondo. Arriviamo infatti a parlare di sostenibilità sociale che è molto di più di ciò che veniva identificato come responsabilità sociale d’impresa: è il combinato disposto di tutte le sostenibilità. Azienda e organizzazioni hanno un impatto sociale e devono sapere che in tutti i processi aziendali devono essere allineate ai criteri di sostenibilità, creando anche delle KPIs di sostenibilità in ogni azione».

Le macchine sono ancora la leva per il futuro o l’uomo ha recuperato la sua posizione?
«Oggi si vuole raddrizzare un po' il tiro rispetto a una deriva di pensiero e azione che voleva delegare il momento decisionale e strategico alle macchine. In questo senso si vuole fare sì che le persone riprendano in mano il controllo; e parliamo di tutti noi quando siamo cittadini, telespettatori ma anche manager, quando siamo gestori di realtà produttive, o servizi, o comunque stakeholder. È la ripresa in carico di una responsabilità fortissima, che non si può delegare alle macchine nei momenti di analisi e strategia, dove sono sempre le persone a decidere. Lo stesso accade per i big data e per tutte le forme di internet 4.0: le macchine possono fare molto ma serve una capacità di lettura e di interpretazione da parte degli uomini».

C’è una direzione futura, che sta nascendo in questi anni, per la comunicazione delle aziende?
«Si comincia a vedere una comunicazione attivista, il cosiddetto brand activism. Fino a poco tempo fa il bravo comunicatore era neutro, l’impresa non doveva prendere una parte o aderire a determinate issues di scenario economico, sociale ecc. Si vede adesso una presa di posizione a favore o contro alcune situazioni come la diversity, la gender parity o i diritti umani. Ci sono aziende che si impegnano e si “schierano” anche a livello di comunicazione, soprattutto per il ruolo sociale che ritengono di avere e che gli stakeholder e i clienti gli attribuiscono. Si arriva così alla corporate diplomacy, una forma di comunicazione non più fatta di sole immagini ma di reputazione di e gestione di ruolo diplomatico verso stati, paesi e comunità. Di certo il mestiere di comunicatore, ora che la comunicazione è stabilmente nella stanza dei bottoni, si è fatto più complesso e c’è molto meno istrionismo: servono serietà e deontologia». (Lam)

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