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A settembre la Regionali
spunti per “leggere” il voto

Luca Tentoni

Il voto nelle sei regioni a statuto ordinario, fissato per il 20 e il 21 settembre, sarà un esame per le forze di governo e opposizione. Non conteranno solo le "bandierine" (cioè le presidenze conquistate: si parte da quattro a due per il centrosinistra, ma potrebbe finire tre pari) ma anche i voti alle "famiglie politiche". Alcune liste, infatti, fra le quali quella del Pd, saranno certamente penalizzate dalla presenza di "partiti del presidente" (così come accadrà alla Lega in Veneto con la lista Zaia), quindi i bilanci andranno fatti nel complesso, non nel dettaglio, a maggior ragione perché le specificità del voto in ciascuna delle sei realtà locali possono portare a scostamenti percentuali elevate rispetto al 2015, al 2018 e al 2019 che invece - prendendo tutte le regioni alle urne nel complesso - possono essere ricondotti a parametri di ragionevole utilità.

Va innanzitutto fatta una distinzione fra il diverso rendimento strutturale dei tre poli nelle sei regioni: i Cinquestelle sono sistematicamente sovrastimati rispetto al dato nazionale (2018: 35,8% contro 32,7%; 2019: 19,5% contro 17,1%) mentre il destra-centro è sottostimato (35,3% nel 2018 contro il 37% nazionale; 48,4% nel 2019 contro 49,6%) e il centrosinistra è invece in linea (2018: regioni 22,5%, Camera 22,9%; 2019: 27,5% contro 28,1%). Se dunque le regionali sembrano in grado di restituirci una proiezione attendibile sul peso del centrosinistra, va fatta invece la tara sulle percentuali degli altri due poli. Nel 2015, il centrodestra ebbe nelle sei regioni il 37,3% dei voti, contro il 38,3% di centrosinistra e Sel (di cui 35,2% solo centrosinistra) e il 15,7% del M5s. Nel 2018, invece, i pentastellati ebbero da soli 58mila voti in più dell'intera coalizione berlusconian-salviniana, la quale però si rifece abbondantemente alle europee sfiorando il 50% dei consensi.

Le asticelle, stavolta, sono all'incirca rappresentate dai pesi del 2019: la Lega deve cercare di ottenere almeno il 27-30% dei voti (una quota va sempre alle liste del presidente; nel 2015 la lista Zaia ebbe il 5,2%), mentre a Forza Italia basta non scendere troppo sotto l'8,7% per l'Europarlamento; per contro, a Fratelli d'Italia si chiede un risultato ben superiore al 6,4% di un anno fa (nel 2018 ebbe il 4%, nel 2015 il 3,9%) che corrobori l'ascesa "annunciata" di Giorgia Meloni. A sinistra, il Pd ebbe il 18,1% alle politiche e il 22,1% alle europee, ma stavolta, con le liste del presidente e quelle minori che di solito ottengono fra il 5 e il 7% in più rispetto alle elezioni nazionali, Zingaretti può essere soddisfatto se il suo partito ottiene un 16-17%. In quanto ai Cinquestelle, abbiamo già detto che in queste sei regioni sono tradizionalmente più forti che altrove di circa il 2,5-3%. Se i sondaggi nazionali danno ai pentastellati il 15-16%, qui dovrebbero avere almeno il 17,5-19% per "tenere" le posizioni, altrimenti tutto diventerebbe più difficile (sarebbe complicato per l’intero sistema partitico gestire un'eventuale implosione del M5s).

A facilitare le cose per i grillini dovrebbero giungere gli accordi col centrosinistra in Liguria e forse Marche: i loro voti possono servire per evitare a Salvini e Meloni di espugnare la regione adriatica e probabilmente a limitare i danni (se non a battere Toti, cosa oggi improbabile) in quella tirrenica. Ad ogni buon conto, poiché in Umbria l'alleanza Pd-M5s si è rivelata un disastro, un'eventuale vittoria della coalizione giallorosa consentirebbe ai pentastellati di entrare per la prima volta nella loro storia (proprio nel loro momento più complicato) in una giunta regionale, mentre il governo nazionale potrebbe trarne beneficio. Interessante sarà valutare anche il dato di Italia viva, il partito di Renzi, che in almeno due regioni (Toscana e Puglia) dovrebbe avere risultati superiori alla media nazionale: se i renziani si fermassero al 3% sarebbe un disastro; se invece andassero dal 6% in su, le prospettive di superare le soglie di sbarramento nazionali per il Parlamento sarebbero maggiori di quanto si prevede attualmente.

C'è poi la questione dell'astensionismo: nel 2015 votò il 52,2% degli aventi diritto. Al netto degli elettori residenti fuori dall'Italia (che dovrebbero tornare per votare, perché alle regionali non c'è la circoscrizione estero) la reale affluenza fu del 56,5%. Come al solito, la "salienza" (cioè l'importanza) delle sfide sosterrà la partecipazione elettorale: partite già decise come quella veneta e forse quella toscana potrebbero spingere gli elettori a disertare i seggi, però ci sarà il traino di altre consultazioni (come le comunali) che di solito aumenta l'affluenza.

(da www.mentepolitica.it)

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