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La corsa al vaccino tra business geopolitica e (pochi) diritti umani

di Maurizia Mezza

(27 gennaio 2021) La corsa al vaccino si sta configurando come una competizione geopolitica, come fu “ la corsa allo spazio” che ha caratterizzato la Guerra Fredda.   La posta in gioco fondamentale anche nella pandemia è il predominio sociale e culturale nella relazioni globali. L’affermazione del proprio sistema di comando sul sapere. 

 Cina, Russia e Stati Uniti, si trovano anche nella gestione del vaccino a intrecciare geopolitica e ideologia, interessi locali e ambizioni imperiali. L’Europa, esattamente come sta muovendosi nel campo digitale, cerca una terza via, condizionata dalla frammentazione politica e dalla pressione, decisamente più forte e consapevole, della società civile. 

La novità nella gestione di Covid 19, rispetto alla guerra fredda e la guerra del calcolo, forse sta proprio nella presenza negoziale della società civile, delle sue articolazioni istituzionali, del peso che la scienza ha assunto non più come strumento ma come partener e contropotere, che spinge le istituzioni a operare con una tendenziale trasparenza, o almeno con un controllo dell’opinione pubblica più intrusivo e ineludibile. 

Le polemiche che si stanno sollevando attorno ai grandi centri tecnologici, fino a pochissimi anni fa considerati i testimonial vincenti del progresso, denunciano la mutazione di quel senso di subalternità rispetto ai titolari dei saperi tecno scientifici che fino ancora a qualche mese fa sembrava gravare sulla scena mondiale. Una subalternità che sta trasformando gli apparati scientifici e anche le corporation tecnologiche in vere e proprie scuole di pensiero, dialetticamente aperte al confronto e alla conversazione con coloro che erano solo utenti passivi o pazienti impotenti. 

In questa nuova configurazione il dualismo fra proprietà privata e dominio statale sta esplodendo, rendendo palese le inadeguatezze delle ideologie più radicali dei due sistemi. 

 Mentre in Russia ed in Cina, in maniera seppur diversa fra di loro, il settore pubblico è stato protagonista assoluto nella ricerca e produzione dei vaccini, negli Stati Uniti , sul modello della Silicon Valley, lo stato paga e i privati fanno profitti: le forze pubbliche hanno infatti finanziato con più di 12 miliardi di dollari il settore della ricerca sanitaria privato, costituito da grandi case farmaceutiche e piccole aziende biotech.  In Europa, come vedremo , si sta combinando l’attesa di alcune medie aziende continentali, come il gruppo AstraZeneca, o l’ancora distanziata italiana Reithera, con acrobatiche formule commerciali che cercano di imbrigliare lo strapotere dei mega gruppi americani o irretire le ambizioni di russi e cinesi. Una copia fedele delle contorsioni che si registrano sullo scenario dell’intelligenza artificiale: selezione con le normative anti trust e qualche incursione di aziende corsare locali. 

Già all’inizio della pandemia 120 vaccini erano in sviluppo in tutto il mondo. In entrambi i casi l’affanno rispetto al controllo totale del mercato da parte dei gruppi privati americani è evidente. 

Nell’ Unione Europea i primi vaccini ad essere approvati sono stati quello prodotto dall’azienda tedesca BioNtech in collaborazione con il gigante nord-americano Pfizer, e quello della compagnia biotecnologica nord-americana Moderna. 

Entrambi utilizzano la tecnologia mRNA, una delle più sofisticate biotecnologie in circolazione, precedentemente applicata nello sviluppo di farmaci antitumorali e vaccini contro altre malattie infettive, tra cui Ebola e Zika. Quando a novembre 2020 sono stati approvati, il mondo ha tirato un sospiro di sollievo, elogi ed entusiasmo non si sono risparmiati. E soprattutto non si è fatto attendere la consacrazione ideologica. 

Il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari ,per esempio, a dicembre 2020 ha incoronato come vincitore della sfida scientifica tra Russia, Cina e Stati Uniti il modello di ricerca delle democrazie “avanzate” (nda ovvero quelle occidentali), a cui assimilava per consuetudine l’Europa, e chi ne ha permesso lo sviluppo. In un solenne articolo di fondo Molinari ha scritto in sostanza che per avere biotecnologie sofisticate c’è bisogno di un sistema in cui numerose società di ricerca siano in competizione fra loro, e che lo stato, sottintendeva, paghi la ricerca di base. 

L’accentramento della ricerca in grandi conglomerati pubblici non è un terreno fertile per l’innovazione scientifica, ha continuato Molinari, mentre l’occidente ed il suo modello di ricerca sono la naturale culla dell’innovazione. E dunque, dal primato nazionale al primato ideologico il passo è breve. In pochi giorni, a cavallo del passaggio di anno, lo scenario è però cambiato repentinamente. Pfizer ha annunciato impunemente , nell’incredulità generale, che avrebbe ritardato la consegna di un terzo delle dosi pattuite con l’ Europa, facendo così saltare, tra l’altro, l’ambizioso piano dell’Italia di vaccinare il 70% della popolazione entro settembre 2021. E lasciando sospesa la domanda su quante vittime costerà questo ritardo e sul conto di chi metterlo. Ma ancora più disarmante è apparso il retroscena di questa arrogante decisione dei produttori americani: nello stupore generale, è emerso che l’UE aveva negoziato un accordo con il colosso nord-americano per ottenere le dosi del vaccino ad un prezzo relativamente basso, che sembrerebbe essere di 10 dollari in meno per dose rispetto al prezzo pagato persino dagli USA, e 15 in meno di  quello di Israele. Il risultato è stato che appena la domanda ha superato la capacità produttiva, le dosi destinate all’Europa sono state indirizzate a chi ha pagato di più. Gli americani, impegnati nella corsa elettorale presidenziale, non hanno badato né a spese né a minacce, gli israeliani, dove il premier Netanyhu a marzo si giocherà la testa nelle ennesime consultazioni anticipate, ha giocato spregiudicatamente ad un ulteriore rialzo per accaparrarsi quote che non gli spettavano. 

 C’è davvero da stupirsi che una azienda privata si preoccupi più dei guadagni dei propri azionisti che del piano vaccinale di un paese? 

Se poi avessimo la cura, e la lucidità, di domandarci cosa sta succedendo nei paesi a medio e basso reddito, dove è stato stimato che un sesto della popolazione non sarà vaccinata prima di fine 2023, avremmo con evidenza solare la dimostrazione di come mai  i vaccini mRNA non salveranno il mondo dal Covid-19, se confermiamo questo modello produttivo privatistico. 

L’impossibilità dell’accesso globale al vaccino Covid-19, e quindi il mancato raggiungimento dell’immunità di gregge a livello globale, è considerato uno dei pericoli principali del nazionalismo vaccinale. 

Ma questo scenario oscuro e inefficiente è già una realtà per quanto riguarda da tempo molti altri farmaci e vaccini (come per esempio il vaccino anti-pneumococcico che pur essendo un vaccino salvavita non è stato introdotto dal 25% dei paesi del mondo per il suo alto costo). Esso è principalmente legato a un modello di salute affidato ai privati, e basato sulla logica dei brevetti. Se davvero si volesse accertare quale modello di ricerca, produzione e distribuzione di vaccini essenziali sia effettivamente vincente, bisognerebbe fare la fatica prima di stabilire i parametri, i valori, gli obbiettivi in base ai quali assegnare il podio. Vite umane salvate? Avanzamento tecnologico? Guadagni economici? Sicurezza sistemica? 

E’ ancora presto per decretare quale vaccino contro il Covid-19 potrà salvare più vite, e, poiché ne serviranno molti per soddisfare la domanda globale, ci auguriamo che più vaccini possibili siano presto approvati e distribuiti. Ma già prendendo in considerazione alcune caratteristiche delle varie tecnologie è possibile fare un paio di considerazioni. 

I vaccini mRNA sono una tecnologia sicuramente all’avanguardia, ma che è difficile da produrre e distribuire (devono essere mantenuti ad una temperatura che varia tra i -90 ed i -70 gradi), e che inoltre è accessibile ad un altissimo prezzo. Non essendo dunque tecnologie che possono essere distribuite globalmente, non permettono di raggiungere una distribuzione equa, e quindi non permettono di massimizzarne l'impatto immediato e a lungo termine sulla salute pubblica. Questo tipo di biotecnologie mancheranno pure a Russia e Cina, come riconosce anche Molinari. Mentre, proprio considerando i parametri che richiamavamo prima, soprattutto quello della usabilità e dell’accessibilità, non si può non riconoscere che il vaccino russo al momento mostra le caratteristiche prioritarie e condivisibili di soluzione e sicurezza complessiva sia per l’Europa che per i paesi del terzo mondo. Così come Soberana 02, il vaccino cubano sviluppato e prodotto dal noto istituto di Biotecnologia dell’Avana Finlay, anche con il concorso di un ricercatore del CNR italiano, che sta per entrare nella terza fase di sperimentazione, e mostra di avere tutti i parametri per dimostrarsi fruibile e accessibile per  molti paesi in via di sviluppo, a cui è stato già promesso. 

Quando a fine luglio Mosca ha annunciato che il vaccino Sputnik V sarebbe stato pronto in due settimane, sospetto e sarcasmo non si sono risparmiate. Eppure, il centro nazionale N.F. Gamaleya , che ha sviluppato il farmaco, è un rinomato centro di ricerca a livello internazionale. 

Fondato nel 1891 come un laboratorio privato è stato nazionalizzato nel 1919 e attualmente opera sotto il Ministero della Salute. Nel 2015 aveva sviluppato un vaccino contro l'Ebola basato sull'uso di un vettore di adenovirus, il cui approccio è stato utilizzato per produrre lo Sputnik V. Fino ad oggi con risultati considerati incontrovertibilmente positivi. Metodologicamente si tratta di un prodotto affine al prototipo europeo. 

L’uso di particelle di adenovirus umano , ricombinante con una proteina dell’involucro del coronavirus, è proprio la stessa tecnologia impiegata dal vaccino dell’anglo svedese AstraZaneca e l’Università di Oxford. Quest’ultimo, su cui si concentravano  le speranze  della terza via terapeutica dell’Unione Europea ha mostrato problemi proprio nella fase finale, costringendo l’onnivora Germania a rivolgersi addirittura ai russi. Una serie di ritardi e imprevisti hanno visto slittare l’approvazione dell’EMA (European Medicine Agency che si occupa di approvare i farmaci per l’uso negli Stati Membri) per il vaccino di AstraZeneca, la quale ha firmato un memorandum di cooperazione con l’istituto russo per condurre insieme la sperimentazione clinica. 

In entrambi i casi, ed è questa la qualità da valutare e discutere in una emergenza globale in cui usabilità e mobilità del farmaco sono condizioni essenziali, si è scelto di non battere la strada di una raffinata tecnologia all’avanguardia, come nel caso americano, quanto invece di puntare ad un prodotto ad un costo ridotto, più facile da realizzare e soprattutto da  distribuire.  Infatti sia lo Sputnik che l’AstraZaneca non devono essere conservati e trasportati in condizioni estreme di refrigerazione, in contenitori che assicurano una temperatura limite di -80°, e dunque una volta adottati potranno abilitare circuiti distributivi più agevoli , quali quelli che si basano sul network dei medici di base e delle farmacie, cosa impossibile con il prodotto della Pfizer. Lungo quest’asse di cooperazione a tutto campo, come appunto nel caso della sinergia con la ricerca russa, in cui aziende europee combinano competenze e  tecnicalità con sistemi che possono meglio integrarsi ad un modello misto pubblico-privato, potrebbe realmente prendere forma una via europea alla scienza veloce. Infatti se insieme a forme di produzione leggera e di testing rapido si integrasse il circuito distributivo con licenze produttive in loco, abilitando aziende  nazionali ad assicurare la produzione a regime, avremmo una forma di rifornimento sicura e non esposta a sbalzi speculativi. 

Il vaccino cubano sfrutta invece una tecnologia ancora diversa, ma anch’essa molto più accessibile. È un vaccino a subunità, cioè un vaccino purificato in cui l'antigene virale è chimicamente legato al tossoide tetanico. Si tratta di una tecnologia consolidata, che potrebbe aver richiesto tempi di sviluppo più lunghi rispetto all'mRNA o ai vaccini attenuati, poiché la determinazione della migliore combinazione di antigeni richiede tempo, ma che ha costi di produzione inferiori, idoneità per persone con sistema immunitario compromesso, stabilità termica ed elevata produzione scalabile. Anche in questo caso sarebbe indispensabile un modello di concessione ad aziende locali per rendere il flusso dei rifornimenti sicuro e programmabile. 

In questo scenario torniamo alla visione iniziale, in cui il vaccino diventa il contenuto e lo strumento di una idea di stato , di una strategia di welfare, in cui produzione, distribuzione e struttura stessa del prodotto non possono non essere parte di un patto sociale dove governati e governati, o anche scienziati e pazienti, si ritrovano con convinzioni in una cultura della condivisione e della trasparenza reciproca. 

 

Maurizia Mezza è ricercatrice di antropologia medica presso l’Università di Amsterdam  

 

 

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