di Paolo Pagliaro
Dal punto di vista economico, il conto del Covid lo sta pagando un terzo degli italiani, quelli che non possono contare su uno stipendio fisso o una pensione. Di questa minoranza sempre meno silenziosa fanno parte i lavoratori dell’ industria culturale e creativa, settore che in Europa – dice un rapporto di Ernst & Young - ha sull’economia un impatto maggiore rispetto ad agricoltura, tessile, telecomunicazioni, aerospaziale, chimica, estrazione di petrolio e gas, prodotti farmaceutici e beni Hi Tech. Nei paesi dell’Unione, cultura e intrattenimento avevano incassato - nell’ultimo anno pre-Covid, il 2019 – oltre 640 miliardi, producendo valore aggiunto, cioè ricchezza, per oltre 250 miliardi. Di tutto questo è rimasto poco o nulla. In Italia a causa delle chiusure anti-contagio è stato cancellato il lavoro di quel milione di persone che in tempi normali consentono alle altre di andare al cinema, a teatro, a un concerto, a una mostra, in una discoteca, in un museo o allo stadio. Qualche artista qualche star, ma soprattutto un esercito di lavoratori atipici e precari. Particolarmente colpite sono state la musica e lo spettacolo dal vivo: secondo le stime di Assomusica, nel 2020 hanno visto svanire il 97% del loro fatturato. Ha perso il lavoro il 95% degli addetti, si è salvato solo quel 5 per cento che lavora per le televisioni. Il danno sociale non è quantificabile. Considerato l’indotto di un concerto o di un grande evento sportivo, è enorme anche quello economico. Per tutte queste ragioni le parziali riaperture autorizzate da oggi sono sì un rischio, ma anche un atto dovuto.
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