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25 settembre, un enigma
E l’esito non è scontato

Paolo Pombeni

Adesso tutta l’attenzione si concentra sulla campagna elettorale che presenta varie anomalie: un numero di seggi fortemente ridotto rispetto a quelli disponibili nella tornata precedente, una campagna concentrata in due mesi, il voto agli inizi di autunno (una novità nella storia della repubblica), un sistema elettorale che prevede in parte collegi uninominali di grandi dimensioni. Tutto questo induce molti osservatori a concludere che si tratterà di una competizione in cui conteranno più che altro i riferimenti “nazionali”, la propaganda che si veicola sui media e sui social. Del resto i partiti, soprattutto i maggiori, al momento confermano questa visione avendo già da tempo impostato la loro comunicazione sia su argomenti cosiddetti “identitari”, sia sulla contrapposizione senza mediazioni fra due “campi”, ognuno dei quali tenta di presentare sé stesso come il bene assoluto e l’avversario come il disastro incombente.

È davvero così? Ci permettiamo di avanzare qualche riserva riguardo a queste semplificazioni, senza peraltro negare che contengano alcuni elementi oggettivi. Innanzitutto si sottovaluta lo shock che nell’opinione pubblica ha provocato la liquidazione poco seria del governo Draghi. Certo non tutti gli elettori seguono con attenzione gli eventi e ci sono fasce che possono essere conquistate dalle leggende metropolitane messe in giro da coloro che non volevano assumersi la responsabilità di quanto è successo: Draghi era stanco, ce l’avevano con M5S perché difende i poveri e l’ambiente, il centrodestra era disponibile per un Draghi bis ma il PD non l’ha voluto. Chi però abbia seguito un minimo come sono andate le cose non ci casca e soprattutto Draghi gode di un credito presso la maggioranza dell’opinione pubblica (e di molti ceti dirigenti) tale da non lasciare spazio a queste manipolazioni.

Ciò significa, a nostro modesto avviso, che i cosiddetti argomenti identitari probabilmente non avranno sul pubblico la presa che si immaginano gli interessati strateghi della comunicazione dei diversi partiti. Ridurre i problemi dell’Italia al blocco dell’immigrazione, ad una impossibile flat tax, al mito delle pensioni almeno a 1000 euro al mese, fa il paio con i convincimenti di certa sinistra che quel che importa sia una legge sulla omotransfobia, sulla cannabis, o dei grillini che credono alla lotta contro le tecnologie per affrontare i problemi delle mutazioni in corso. Ovviamente il calcolo dei comunicatori è che si possano usare i doppi registri: uno per i pasdaran che hanno bisogno di bandierine, uno, meno esibito, per la gente normale che sa benissimo che non risolveremo i nostri guai urlando un po’ di slogan, sicché a questa si fa capire che si scherza, poi al governo si farà quel che si può.

In un quadro fortemente segnato dalla diffidenza e anche dal rifiuto verso la politica politicante può benissimo darsi che le strategie sopra descritte producano effetti contrari alle aspettative dei loro proponenti. È vero che molti si immaginano che con la dimensione abnorme dei collegi uninominali (specie di quelli del Senato) non ci sia alternativa al gridare molto se si vuol essere sentiti, tanto la gente voterà per le “bandierine” più che per i candidati, essendo difficile trovare persone veramente “radicate” su territori tanto vasti. Che questa sia una delle dinamiche è possibile, che sia l’unica, dubitiamo. La gente ha maturato una certa diffidenza per i politici di professione e la competizione fra una folla di candidati come quella che si preannuncia può anche favorire le figure che più si allontaneranno dall’immagine del funzionario di partito. Poi non è detto che questo automaticamente porti ad avere eletti di migliore qualità (quel che è successo col grillismo non lo dimentichiamo) ma è una dinamica di cui andrebbe tenuto conto.

Ciò dovrebbe spingere i partiti a trovare, soprattutto per i collegi uninominali, personalità capaci di raccogliere un vasto consenso che vada al di là delle molteplici tribù politiche in cui ormai tutti sono divisi. Facile a dirsi, assai difficile a farsi se teniamo contro del numero ridotto di seggi disponibili. Con queste carenze non è facile immaginare che i vari capi corrente e i diversi funzionari siano disponibili a farsi da parte per consentire alla loro componente di puntare su figure che rompano gli schemi tradizionali delle collocazioni para-ideologiche. Eppure in un contesto maggioritario dove si vince anche per un pugno di voti in più sarebbe bene puntare su figure che possano fare appello ad un consenso a largo spettro.

Teniamo anche conto che si voterà in autunno in una fase che sarà dominata da molte preoccupazioni sul futuro: in parte perché si è continuato a farci riferimento, in parte perché è tipico della psicologia collettiva interrogarsi in quell’epoca su cosa ci riserverà il nuovo ciclo che va ad iniziare. Di nuovo molti comunicatori pensano che questo sia molto favorevole alle varie demagogie, ma ancora una volta non è detto: può capitare che di fronte alla preoccupazione per quel che potrebbe accadere gran parte dell’elettorato preferisca alle utopie un investimento su una prospettiva razionale priva di sogni irrealizzabili.

Insomma a nostro modesto avviso le urne del 25 settembre rappresentano un enigma. Esse ci mostreranno se davvero si è aperta una nuova fase della politica italiana, di quale fase potrà trattarsi e se la cosiddetta seconda repubblica, di cui è emblema il sogno senile di rivincita di Berlusconi, abbia concluso il suo ciclo. Ma soprattutto renderà palese se e quanto gli italiani si siano resi conto del tornante che hanno davanti. (da www.mentepolitica.it)

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