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25 settembre, una svolta o un ciclo storico?

di Paolo Pombeni

Lasciamo perdere le stucchevoli analisi sul ritorno al potere dell’estrema destra dopo il fallimento di Mussolini e settant’anni di antifascismo. È roba da storici improvvisati o da banali seguaci dei riflessi di Pavlov di una cultura politica di scarsissimo spessore. Quel che è accaduto con le elezioni di domenica 25 settembre 2022 è un fenomeno noto agli storici: la reazione ad una fase di esasperazione del cambiamento nei momenti di transizione storica.
Paradossalmente Enrico Letta è riuscito ad imporre la sua visione dello scontro elettorale come un confronto fra noi e loro, noi dei “diritti” e loro della “negazione dei diritti”. Solo che non ha capito che da un lato quella esasperazione dei cosiddetti diritti era respinta da una ampia quota della popolazione già incerta sul futuro che la attende, mentre dall’altra più che di negazione dei diritti si parlava di fermarsi nella corsa al sempre più innovativo, di riscoprire il valore connettivo delle impostazioni più o meno tradizionali lasciateci da una storia pregressa. Giorgia Meloni ha colto il punto e si è affermata come leader di una svolta, riducendo il peso delle esasperazioni che stavano nel suo campo, cioè le sparate di Salvini, che a sua volta propone un mondo che non esiste, e le utopie ormai slabbrate di Berlusconi che promette tutto a tutti come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Naturalmente la destra è un amalgama come lo sono tutti i movimenti politici che assemblano sentimenti generali e dunque ci sta dentro anche una quota di revanchismo di quelli che sentendosi esclusi dal circuito della partecipazione mitizzano il loro isolamento non di rado ricorrendo alla riproposizione di un fascismo da fumetti, giusto perché è un altro modo di essere “alternativi” (e con questo sulla stessa lunghezza d’onda dei loro avversari “di sinistra”).
Adesso il tema che si pone a tutte le componenti del sistema politico italiano è quello di ridefinirsi, di uscire dagli stereotipi delle vecchie contrapposizioni, di abbandonare culture che non sono in grado di confrontarsi con la transizione storica che viviamo, la quale ha cambiato buona parte dei quadri di riferimento.
La destra deve decidere se il suo tradizionalismo diventerà una forma di conservatorismo che è capace di rivedere una serie di strumenti del governo delle tensioni sociali senza pensare che sia possibile e che abbia senso “tornare indietro”. Ci permettiamo di fare un modesto rinvio alla storia britannica. Nel 1951 i conservatori guidati da Churchill sbalzarono dal governo i laburisti al potere dal 1945, laburisti che avevano fatto molte riforme “socialiste” (nazionalizzazioni, riforma della sanità, ecc.) contro cui i “tories” avevano sparato ad alzo zero. Ci si aspettava che giunti al governo e rimastivi per un decennio buono annullassero quelle riforme e invece non lo fecero, consapevoli che ormai si era in un nuovo tipo di società ai cui parametri era necessario adattarsi limitandosi a raffreddarli. Sarà questa la scelta del governo Meloni? Lo vedremo, perché nella storia nulla è scontato e molto dipende dai contesti. Quindi dovremo vedere se i suoi “alleati” le consentiranno di incamminarsi su quella strada, che inevitabilmente la consoliderebbe a loro discapito, e se le opposizioni saranno capaci di evitare di spingerla alla radicalizzazione di bandiera riproponendo la stucchevole contrapposizione fra angeli e demoni (si ricordassero che agendo così con Berlusconi non hanno fatto una operazione di successo).
Lo stesso problema di ridefinizione si proporrà nel campo che per semplificazione potremo chiamare progressista. Il suo maggior partito, il PD, deve decidersi a lasciar perdere con l’inseguimento del massimalismo, nella convinzione che essere “di sinistra” significhi rovesciare il mondo in cui abbiamo vissuto e viviamo. Questo significherà fare i conti con l’utopismo che è una tradizione dura a morire, la quale si sposa con il millenarismo della domanda di “bonus” capaci di annullare con interventi provvidenziali (nel senso quasi letterale del termine) le fatiche di gestire un cambiamento che è inevitabilmente lento e graduale.
Ciò implicherà per forza di cose un confronto con la tradizione del riformismo, che torna in campo sia pure in maniera confusa con formazioni come quella nata sulla confluenza dei partiti personali di Calenda e Renzi. Il riformismo è il realismo che porta a considerare le trasformazioni tendenziali presenti nell’evoluzione non come fenomeni da accelerare con l’abbandono degli equilibri del passato, ma come fenomeni da governare per renderli compatibili con la conservazione delle solidarietà sociali che hanno delle loro ragion d’essere.
Come spesso nella storia, queste ridefinizioni che interessano i due poli del sistema politico, la conservazione e il progresso, possono reciprocamente fecondarsi e aiutare una transizione solidale e fruttuosa verso un mondo che sta cambiando. Se invece ci si arroccherà nella difesa o della tradizione sacralizzata o della palingenesi data per inevitabile, lo sbocco sarà uno scontro di totalitarismi. Il peggior esito che si possa immaginare.
(da mentepolitica.it)

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