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I tempi lenti della politica che non vuole guarire se stessa

di Salvatore Tropea

Qualcuno ha detto che “il tempo non puoi conservarlo ma puoi spenderlo”. A giudicare dal dibattito che monopolizza le serate televisive e lo spazio in larga parte dei giornali i politici italiani mostrano di avere un modo tutto loro di interpretare questo monito. Con un certo compiaciuto accanimento negli ultimi venti-trenta anni. Perché non è stato sempre così. Si racconta infatti che, dopo un insuccesso che non era stato neppure elettorale, Pietro Nenni si sia presentato davanti ai dirigenti del Psi di cui era allora segretario con in mano le dimissioni e la proposta di aprire subito la discussione sul merito, e lo abbia fatto con una tale rapidità e determinazione al punto tale da indurre Vecchietti e Valori suoi acerrimi avversari dello Psiup a fermarlo dicendo “compagno Nenni nessuno ti ha chiesto nulla”.
Oggi il poco di quelle buone abitudini è andato perso sia che si parli di governo sia che si parli di decisioni interne ai partiti (in molti casi sarebbe più appropriato definirli raggruppamenti o caciccati). Si stupisce, e non senza buone ragioni, l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, nel constatare che il nuovo governo di Giorgia Meloni potrà vedere la luce tra non meno di un mese, forse due, che per i tempi e i problemi del paese sono un’eternità. C’è in questo metodo un continuum pericoloso con le geometrie del vecchio partitismo ma, se è vero che il centro sinistra ha gettato al vento la possibilità di un’alleanza che avrebbe potuto dargli la vittoria la destra (estrema o da impresa) dovrà vedersela con i capricci senili del cavaliere, le guasconate di uno come Salvini che ha perso e fa finta di avere vinto, gli appetiti di chi pensa a rivincite dopo lunga astinenza dal potere.
Mentre si continua a blaterare su una continuità tra Draghi e la Meloni che qualcuno definisce endorsement come se un presidente uscente dovesse mandare al diavolo il successore e il paese, laddove è evidente che il problema è quello di cercare una non facile soluzione districandosi tra le pretese dei componenti la nuova maggioranza. Sul fronte opposto Calenda parla per sé e per Renzi come se avesse davanti un avvenire radioso senza che si capisca dove voglia andare sempre che lui lo sappia. Intanto il Pd (forse il solo che in Italia possa ancora definirsi un partito), ha messo in conto tempi per il congresso che sono incompatibili con le urgenze alle quali deve far fronte. Si parla di marzo e si deve presumere che fino a quella data non mancheranno altre occasioni per tirare a campare e soprattutto per far dimenticare le vere ragioni della sconfitta che sono quelle della volta scorsa e di altre volte, tutte dimenticate, archiviate in attesa di capire come fare ma senza cercare di trovare il modo di farlo. Perché continua a mancare la volontà e i protagonisti sono sempre gli stessi che si alternano e cambiano magari città come le compagnie di giro del vecchio teatro. E se proprio devono occuparsi di politica lo fanno non per analizzare quello che hanno combinato ma per prepararsi a continuare sulla stessa strada. E infatti parlano già delle elezioni regionali del 2023. A riprova del fatto che sono proprio incorreggibili. Forse inguaribili.

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