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Eugenio Montale,
il poeta infinito

Eugenio Montale, <br> il poeta infinito

Nel secolo scorso potevano succedere cose magiche, come quella dell'assegnazione del premio Nobel per la Letteratura ad un poeta, un nostro poeta, un poeta italiano: Eugenio Montale. Cose da secolo scorso, a pensarci con la prospettiva della contemporaneità, lontanissime. Eppure era il 1975, ed un linguaggio che duellava con i sottili avversari del Secondo Novecento - i mali di vivere spesso e da tutti incontrati, i cocci aguzzi di bottiglia su muri che abbiamo potuto valicare solo a parole, evidentemente – quel linguaggio poteva salire sul trono del riconoscimento maggiore, concesso dall'accademia di Svezia. Sono passati nemmeno quarant'anni e la poesia s'è rattrappita, auto esiliata in asfittiche isole per pochi intimi. Ossi di seppia - la prima raccolta - esce nel 1925, il poeta genoano ha ventinove anni; ci sono stati esordi più precoci, più brucianti, ma se è vero come raccontano nei corridoi delle facoltà umanistiche, che Montale leggeva un libro al giorno, si capisce che per comporre quella straordinaria opera doveva prima sintetizzare un'intera biblioteca, prima di scrivere: “Svanire è dunque la ventura delle venture”. Prima di ammettere: “Restò così questa scorza/la vera mia sostanza;/il fuoco che non si smorza/per me si chiamò: l'ignoranza”. Non si può ignorare la portata torrenziale dell'innovazione lirica, simbolica, formale della più importante raccolta del secolo. Per entrare nella storia della letteratura - Montale non ebbe mai il coraggio di esibirsi in pubblico - studiò canto per alcuni anni. La lirica non può essere finita nell'aria, la utilizzò per cantare muto, come è proprio dei poeti. E regalare uno dei versi sublimi che abbiamo la fortuna di trascrivere: “il vento che nasce e muore/nell'ora che lenta s'annera/suonasse te pure stasera/scordato strumento,/cuore” (Corno Inglese). Lo slittamento di significato tra strumento che mal suona perché non accordato, e la parolina “cuore”, scordato cioè dimenticato, sono una lezione, quasi una preghiera laica per tutte le generazioni a venire, che avranno a che fare con la scordata scrittura, con la scordata vita. Seguirono composizioni più dense, Le Occasioni (1939), su cui aleggia l'ombra del secondo conflitto mondiale; e poi La Bufera ed altro, Satura... Ad un certo punto muore. Muore nel senso fisico del termine, lui che era nato il 12 ottobre, giorno della scoperta dell'America, e morendo lascia ai posteri un rompicapo anche filologico: sessantasei poesie, firmate, suddivise in undici buste, dispone che siano pubblicate a gruppi di sei ogni anno, a partire da cinque anni dopo la sua morte (1981). Si chiama Diario postumo, e ha fatto arricciare il naso ad alcuni critici e studiosi (e amici di Eugenio), i quali hanno messo in dubbio l'autenticità dei testi. Altri no, altri l'hanno confermata. Il problema resta, perché è numerico: a colpi di sei prima o poi il diario s'esaurisce. Ma noi che restiamo a terra avremmo voluto l'infinito, e a ben rileggere Montale ce l'ha dato.

 (Valerio De Filippis)

 

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