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Quelle dimissioni immediate che immediate non sono

di Salvatore Tropea

Puntuale come l’avvicendarsi delle stagioni è arrivato il ripensamento di Vittorio Sgarbi ovvero l’annuncio che le “dimissioni immediate” da sottosegretario al ministero della Cultura dopo la decisione dell’Autorità garante del mercato per i suoi conflitti di interesse (conferenze e lezioni pagate 300 mila euro mentre era membro del governo) tanto immediate non sarebbero state. E questo perché -ha tenuto a precisare- deve “ancora negoziarle”.
Dunque, invece di chiedere scusa e infilare la porta, Sgarbi ritiene di dover discutere le condizioni di quello che con ogni evidenza dovrebbe essere un atto dovuto e che invece lui definisce una sorta di pagana via crucis. E per questo non è sfiorato dall’idea di doversi fare da parte, come sarebbe più che normale almeno in attesa di un accertamento dei fatti peraltro abbastanza circostanziati, e anzi mette in scena la pantomima della rinuncia seguita dalla retromarcia. Così può restarsene tranquillamente in via del Collegio Romano confortato dalla certezza di non essere per questo un alieno ma di condividere la stessa sorte con altri esponenti del governo. Sgarbi sa perfettamente di far parte di una nutrita compagnia. L’elenco va dalla ministra per il Turismo, Daniela Santanchè, indagata per questioni relative alla gestione di una sua azienda non proprio in buona salute finanziaria al sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio sul caso Cospito e ricomparso tra i presenti alla “festa con pistola” di Capodanno in provincia di Vercelli, dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, che consiglia di minimizzare sui casi di stupro come quello del figlio Geronimo-Apache, a parlamentari assortiti tutti accomunati dall’essere chiamati a rispondere di qualcosa nelle aule di giustizia.
Sarebbe interessante accertarlo, ma è assai probabile che neppure ai tempi di “Mani pulite” i governi siano stati tanto affollati di ministri ed esponenti del governo alle prese con i codici. Evidentemente prevale un diffuso senso di impunità che Giorgia Meloni si guarda bene dall’affrontare scegliendo di far finta che tutto sia regolare e confidando anche nell’inconsistenza dell’opposizione incapace di andare all’attacco forse perché tacitata con qualche “poltroncina”. Il personale di sottogoverno, e con argomentazioni diverse anche alcuni osservatori politici, tendono a credere che, nonostante tutto questo, Giorgia Meloni possa superare indenne il traguardo delle prossime elezioni europee, oltre il quale potrebbe esserci una resa dei conti. Ma c’è anche chi si chiede fino a che punto si possa continuare a confondere Palazzo Chigi col Palazzaccio di piazza Cavour, dove i processi penali terminano il loro corso.

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