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direttore Paolo Pagliaro

IL REGISTA ITALIANO
DEL RECORD ANTARTICO

IL REGISTA ITALIANO <BR> DEL RECORD ANTARTICO

Puntare la gopro nel punto più a sud del mondo mai raggiunto da una nave, in Antartide. E scegliere di non “mostrare”: sporcare l’immagine, invertire i colori, comprimere i frame, ridurre l’estetica ad un video da social. La scena finale di “Terra Nova - Il paese delle ombre lunghe” di Lorenzo Pallotta - 31 anni, tra i nomi di una “nouvelle vague” del cinema italiano - è una voluta sottrazione allo sguardo umano, cela per svelare, smitizza per aumentare la grandezza del momento: l’aver raggiunto, il 30 gennaio 2023, la latitudine 78 gradi 44.280' S, nella baia delle balene, da dove nel 1911 partì la sfida polare del norvegese Roald Amundsen contro il britannico Robert Falcon Scott, perito nell’impresa. L’aver superato il record della latitudine meridionale (77 gradi) raggiunta nel 1905 da Ernest Shackleton nella disperata deriva del suo brigantino “Endurance” imprigionato dai ghiacci. “E’ il mio modo di tutelare – spiega Pallotta - l’ultimo luogo della pianeta ancora inviolato dall’uomo. Dare solo una parte della visione perché al resto ci si arrivi con la mente. Esprimere la fragilità dell’uomo che crede di poter controllare una natura che invece va oltre il suo potere. La bellezza spaventosa lasciata dietro i vetri dei boccaporti. Un mondo dantesco, allucinatorio, lunare. Voci quasi fanciullesche come in un filmino di famiglia. Perché in un viaggio estremo come quello di una rompighiaccio - con schianti continui ad impedire il silenzio, in cabine grandi come gabbie, il rischio che il crollo di un iceberg, una tempesta, capovolga la nave, che un incidente faccia esplodere il carburante -, quello che ti sostiene è solo il contatto umano, trovato dove mai te lo saresti immaginato”. Lì, nella famiglia dei marinai di Oceano della nave Laura Bassi dell’Ogs di Trieste che accompagna - nell’estate australe con luce continua e risalita delle temperature a 0-meno 20 -, la missione del Pnra (Programma nazionale di ricerche in Antartide) con i ricercatori e tecnici di Enea e Cnr. Siciliani, liguri, pugliesi - in mare per 5 mesi, di cui 3 nelle acque antartiche - masticando insieme fatica e dialetti, parlando una sotto-lingua tutta loro, la più sconosciuta delle enclave italiane nel mondo. Nell’infrangersi rabbioso del pack contro la prua corazzata di una nave di oltre 4mila tonnellate, tra i poderosi sommovimenti delle gelide piattaforme fluttuanti dell’oceano australe, che mettono in moto tutti gli altri oceani, emergono anche traumi, nostalgie, rimembranze ma soprattutto paura.  “Per me la nave era come una navicella spaziale in viaggio verso l’ignoto. Fin dalla partenza dalla Nuova Zelanda, a inizio gennaio, vieni catapultato in un'altra dimensione. Nei 10 giorni di navigazione verso il mare di Ross abbiamo avuto il mare mosso. C’era chi è rimasto in cabina per una settimana, con le flebo. Io, pur non soffrendo il mal di mare, sono stato assalito dall’ansia nel pensare che mi sarebbe potuti accadere. Poi quando arrivi nella terra dei ghiacci è come se stai sempre in un terremoto, come quello dell’Aquila che ho vissuto quando avevo 15 anni. Ma senza crolli. Trema tutto, senti botti ovunque, costantemente, con il cozzare del ferro contro il ghiaccio. Se incontra pezzi grossi la nave si impunta, fa retromarcia, riparte con fragore. E tra i flutti del ghiaccio passano balene, orche… Al primo iceberg emerso dalla nebbia è stato come vedere Caronte. Colossi dalle forme mostruose, come palazzi alti fino a 20 metri. Con fori, caverne da cui compaiono pinguini, foche, un mondo che sembra uscito da un fantasy. Il passaggio dal buio alla luce e poi mai più buio… E giorno dopo giorno – in questo mondo allucinante e  portentoso – aumenta la tua fragilità, il ritmo emotivo si dilata. E’ un continente esteso due volte l’Europa, con un record di vulcani, l’Erebus è alto quasi 4mila metri, attivo da un milione di anni. Qui un terremoto potrebbe anche produrre un cataclisma tale da alzare i mari tanto da far scomparire le Fiji e la Nuova Zelanda. Qui l’uomo si illude di poter controllare tutto... Si è rotto un motore, se si rompeva anche l’altro saremmo rimasti bloccati nel ghiaccio”. Ed i 53 minuti di “Terra Nova” (il 29 aprile al Trento Film Festival (alle 19,15, replica 1 maggio alle 14,45), poi il 18 maggio a Roma, al Cinema delle Province, per poi circuitare in festival nazionali e internazionali - prodotto da Limbo produzioni di Pallotta e Stefano Chiavarini insieme a Morgana Production, The Piranesi Experience, in collaborazione con Il Saggiatore e Reel One e la distribuzione di Lights On -, riportano questa tensione costante, affiancando la navigazione di questa 38ma spedizione Pnra del 2023 alla terza, del 1988, quando la nave fu costretta ad invertire la rotta nella baia di Terra Nova per fuggire alla morsa del ghiaccio. Alle immagini di archivio della missione con protagonista Mario Zucchelli (cui è intitolata ora la base antartica tricolore), si affiancano quelle girate da Pallotta sulla “Laura Bassi” con una handycam degli anni '90 per accostare i due periodi storici. “Peraltro avevo una macchina da presa ‘vera’ ma utilizzarla sul ponte, con i rischi di scivolamento per uno scarto improvviso, era troppo pericoloso…”. Diversi formati, lo sperimentare dei filtri (necessari contro la sovraesposizione causata dal bagliore accecante eppure salvifico della calotta artica che riflettendo i raggi solari regola la temperatura planetaria), i suoni amplificati: tutto mira a "simulare” una condizione estrema, fisica e mentale. Quasi che in quel gelido deserto si andasse alla ricerca di se stessi.

E così è accaduto al regista teramano (di Montorio al Vomano), approdato a questa esperienza peraltro per puro caso: subentrando ad un operatore video impossibilitato, nella missione organizzata da Morgana Production con il giornalista Stefano Valentino. “Una occasione provvidenziale. Una settimana di tempo per stare via tre mesi. Subito le prove attitudinali a Pavia simulando un naufragio aereo, un incendio. E mi sono ritrovato in questo viaggio così impensabile ed impegnativo. Ed in un vero scontro con me stesso. Giunto alla base italiana, ho potuto camminare da solo, in un ritrovato silenzio. Sono riuscito ad allontanarmi per 2-3 ore in mezzo ai ghiacci. Mi è sembrato di ritrovarmi tra le mie montagne abruzzesi (il continente è il più alto al mondo, con una media di 2300 metri, ndr). Ho sentito fortemente la mia caducità, il poco tempo che ci è concesso. E di quanto l’individualismo renda tutto più complicato, anche nel lavoro. Dover sopravvivere con la prepotenza mi disturba, ancor più se accade nell’arte. Mi rendo conto di aver cambiato anche il mio modo di relazionarmi. E’ aumentata la mia insofferenza verso logiche che non aiutano l'espressione artistica. Ho chiamato Limbo la mia casa di produzione – per esorcizzare quel ‘limbo’ in cui mi ritrovai a 26 anni, dopo alcuni anni a Londra, poi runner su alcuni set importanti, come tanti giovani che tentano la strada del cinema  - ma anche per distinguermi, affermare la necessità di sperimentare, spostare il limite. Ed in tutto questo ricercando anche il piacere della creazione collettiva. Con una decina di amici siamo tornati sui luoghi del Gran Sasso dove abbiamo girato il mio primo documentario, ‘Sacro moderno’, abbiamo preso una casa a San Giorgio, a mille metri, senza internet. Qui nei fine settimana ci ritroviamo per stare insieme ma anche scambiare idee creative, magari creare un collage creativo in cui ognuno apporta la sua poetica, visione. Da lassù possiamo allargare i nostri orizzonti. Sono convinto che l’esigenza di ricongiungersi con se stessi attraverso la natura, il ritorno alle origini in fuga dalle città, sarà sempre più forte tra le nuove generazioni. E si tornerà nei borghi abbandonati come stiamo tentando appunto di fare con quella che chiamiamo simpaticamente la nostra Factory”. Lo spopolamento che Pallotta ha documentato con il realismo crudo eppure fiabesco di “Sacro moderno” – un caso alla Festa del Cinema di Roma del 2021, autoprodotto unendo Limbo ad una catena di altri giovani produttori indipendenti (Il Varco, Peperonitto film, Oudeis Pictures) - sulla storia di un paese fantasma, alle pendici del Pizzo Intermesoli. “Il versante teramano del Gran Sasso è una zona selvaggia che, pur essendo nella mia terra di origine, ho iniziato veramente a conoscere quando sono tornato lì per girare. Il pastore eremita, Filippo Lanci, è l’emblema di un mondo che va scomparendo, il retaggio del passato abruzzese. Una terra di passaggio – ancora oggi la chiamano il parcheggio di Roma – che vive la grande contraddizione della voglia di sopravvivere di questo popolo gentile e altruista eppure feroce: chiuso al mondo esterno (io pur parlando il dialetto ho faticato a relazionarmi con gli anziani del posto), dove ogni borgo aveva tutto per trasformarsi in bunker perché una nevicata, una frana, un terremoto avrebbe isolato tutto, dove ci si uccideva per un pezzo di terra, terra di briganti. Un mondo che si scontra con il futuro impersonificato dai due giovani fratelli Simone e Mattia Caruso (“The children of the sleeping giant” il titolo inglese, ndr). Nella scena della cantina - dove gli uomini parlano e decidono del destino dei ragazzi - il mio racconto ha assunto toni dark di una comunità quasi mostruosa, che prevarica, nella violenza che è anche le parole, la libertà di scelta dell'individuo”.  E i prossimi progetto di Pallotta, tra documento e film narrativo, lo sta portando in un’altra terra di confine, al confine tra Friuli e Slovenia, “che rievoca l’Abruzzo a livello paesaggistico” con ancora con un bambino che combatte la violenza umana, sullo sfondo di un mondo magico ed intrecciandosi alla denuncia dello sfruttamento naturale nella laguna di Grado. “E so già che l’esperienza del luogo modificherà lo stesso progetto filmico. In ‘Sacro moderno’, ad esempio, il lavoro sulla memoria è diventata esigenza di salvaguardia cosicché, ricreando la processione di Pasqua a 2mila metri, è tornato tra le persone del posto un evento che mancava dagli anni ‘50”, “il luogo diventa un personaggio, un simbolo in grado di trasmettere una emozione, una sensazione”. “Tornato dal mondo dei ghiacci – prosegue Pallotta - mi sono subito buttato nel montaggio (un lavoro estenuante di oltre 4 mesi, insieme a Massimo Da Re e Marco Capozzi) - istintivo, emotivo, sensoriale, che mi ha fatto rivivere gli effetti del viaggio. Mi rendo conto che ho bisogno ancora del tempo per buttare fuori quanto vissuto. L’Antartide ha una potenza ed una energia che nessun video può farti sentire. Per questo sto lavorando alla visione performativa del film. Mi piacerebbe proiettarlo al Porto Vecchio di Trieste, città da dove la nave Bassi parte a fine novembre e torna a metà aprile nella sua missione antartica o comunque in zone portuali. Una esperienza multisensoriale, che restituisca allo spettatore l’effetto della rompighiaccio. Un viaggio visivo attraverso più elementi, che tocchi più persone in modo diverso. Come il teatro antico, di piazza, aperto a varie arti. Esponendo anche le fotografie fatte nel viaggio. Sono state ‘bruciate’ alla scansione ai controlli in aeroporto e ciò le ha rese ancora più uniche in un certo senso, abbacinanti, aliene. E penso che questa esperienza possa poi ripetersi in vari porti come anche arrivare in un luogo come i prati di Tivo, sul corno piccolo, perché la montagna evoca il metafisico paesaggio antartico. Sarebbe poi interessante utilizzare un container come elemento, scenico, performativo e narrativo, amplificando i rumori metallici. Mi immagino una ripresa dall’alto del pubblico che scompaia in esso, come inghiottito questo spazio colossale”. Una spinta ad un’arte totale che ben si rispecchia nel “limbo” creativo di Pallotta con il suo essere sul bordo, per spostare di continuo il confine della terra incognita della sperimentazione: “Mi lascio traportare, preferiscono stupirmi e mettermi in difficoltà da solo perché è in questi momenti che nasce qualcosa di istintivo e quindi probabilmente più vero possibile. Sto riflettendo sulla necessità di collaborare con realtà estere, dove il cinema indipendente è maggiormente valorizzato e dove anche c’è un'educazione all'immagine diversa. Ciò che servirebbe molto al nostro Paese, nelle nostre scuole: parlare, scrivere, disegnare di più, per preparare le persone ad un futuro più creativo, umano, attento all’altro ed alla natura”. (16 apr - red)

 

 

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