Ci sono piccole storie di provincia che improvvisamente crescono e assumono il profondo respiro del film o del romanzo ben congegnati. Questa è una di quelle. E come si è soliti scrivere al termine dei film “ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”.
Era una mattina di primavera quando entrò nel mio ufficio il “vaticanista” del giornale. In realtà non era un esperto della Santa Sede, ma il collaboratore che si occupava di vita diocesana.
“Ciao direttore, volevo confrontarmi con te su una storiella curiosa - esordì -. Mi hanno chiamato i pii uomini che si occupano di un santuario. Mi hanno spiegato che alcuni mesi fa alcuni emissari del Vescovo si sono presentati da loro dicendo che dovevano prelevare alcuni lampadari di pregio per sistemarli. Dopo un po’ di resistenze hanno acconsentito. Sono passati i mesi e i lampadari non sono ancora tornati. I pii uomini hanno telefonato in diocesi chiedendo che fine avessero fatto, ma non hanno avuto risposte convincenti e chiedono di scrivere un articolo per sollevare la questione. Che facciamo?”.
Ora è necessaria una premessa: da tempo il giornale era in polemica con la diocesi, nonostante molti giornalisti fossero persone di sincera e provata fede, compreso il “vaticanista”. Il fatto era che la principale fonte del nostro esperto fosse un sacerdote molto influente a cui non era affatto simpatico il presule. Così fioccavano le notizie sull’operato del Vescovo, discutibile per la nostra fonte. L’apice fu raggiunto quanto scrivemmo, dopo attentissime verifiche, che il presule aveva problemi di salute. La Diocesi replicò, come nella migliore tradizione chiesastica e sovietica, che si trattava solo di un raffreddore e che il nostro giornale continuava a pubblicare falsità. Dopo pochi giorni il Vescovo fu ricoverato e operato d’urgenza e, come si dice in questi casi, fu “preso per i capelli”. Da quel giorno le tensioni erano aumentate e bisognava decidere se alimentarle con una notiziola in sé banale di alcuni lampadari spariti. Mi sentivo sicuro di quello che mi riportava il “vaticanista”. Dopo un paio di telefonate di verifica non ebbi più alcun dubbio: “Va tranquillo, ci scriviamo un pezzo”.
Subito comparve l’articolo che chiedeva: che fine hanno fatto i preziosi lampadari del santuario prelevati dagli uomini di fiducia del Vescovo?
Il nostro alto prelato aveva una grande passione per i manufatti artistici quindi l’articolo suscitò parecchi sorrisini. Seguirono le solite smentite poi una mattina mi telefonò il “vaticanista”: “Tutto risolto, i lampadari sono tornati e sono stati rimessi al loro posto, anche se qualcuno dei pii uomini mi dice che sembrano differenti da quelli di prima, ma forse perché sono stati riportati a nuovo…”
“Bene, scrivi” replicai.
Sembrava tutto risolto, l’ennesimo trionfo del giornalismo democratico con il ritorno delle preziosi luci nel luogo per cui erano stati pensati secoli prima grazie ad una donazione per la gloria di Nostro Signore e come riconoscimento alla devozione della Comunità. Bene, bravi, bis; baci e abbracci.
Dopo pochi giorni, nelle interminabili nottate che seguivano al lavoro, nei posti non frequentati dai turisti, incontrai un famoso antiquario anarchico, presenza fissa, imprescindibile e graditissima delle notti cittadine.
“Ti cercavo” esordì con il suo solito fare burbero, poi si aprì in un sorriso: “Sarei venuto anche al giornale. Ho letto quegli articoli sui lampadari, al solito, quando scrivete d’arte, voi giornalisti scrivete cazzate. I lampadari che hanno rimesso nel santuario sono dei falsi”.
Scoppiai a ridere: “Ma dai, sei il solito esagerato, vuoi mai che abbiano fatto una cavolata del genere?”
“Quanto ci scommetti?”
L’antiquario anarchico era riconosciuto per la sua competenza a livello internazionale. Era stato coinvolto, a suo tempo e in maniera positiva, anche in una celebre vicenda che riguardava il furto di alcune opere d’arte di valore “inestimabile” che aveva riempito le pagine delle cronache nazionali e internazionali e che sarebbe stata riportata poi in libri e romanzi. Quando parlava d’arte bisognava ascoltarlo con attenzione.
Finimmo la nottata bevendo “nuvoloni”, con la solita inutile diatriba se bisognasse usare Varnelli, Meletti o Mistrà e fu fissato un appuntamento per il giorno dopo per una gita al santuario.
Partimmo con la Golf dell’anarchico e la giornata fu gioiosa. Arrivati al santuario non trovammo nessuno e per arrivare ad esaminare i lampadari era necessaria una scala. Il nostro anarchico senza farsi troppi problemi ne scovò una in sagrestia e iniziò l’analisi. Bastarono poche occhiate dal vivo per arrivare alla sentenza: “Lo confermo, sono falsi”, proprio in quel momento si palesò il sagrestano che iniziò ad apostrofarci: “Cosa fate lì? perché avete rubato la mia scala?”
In modalità “faccino da bravo ragazzo”, mi presentai e dissi che volevamo rassicurarci che i lampadari restituiti fossero proprio gli originali. Il “sacrista” si tranquillizzò e dopo aver riportato in sagrestia la scala tornò per dirci che anche lui un po’ di dubbi li aveva. Insomma, aveva visto per anni gli antichi lampadari e in quelli montati c’era qualcosa di diverso, ma che non sapeva spiegare esattamente cosa. Intanto l’anarchico se la rideva sotto i baffi che sovrastavano la sua barba imponente. Il sopralluogo finì in una trattoria della zona dove mangiammo uno strepitoso galletto alla romagnola (il pollame non mi piace, ma mi feci convincere dalle rassicurazione dell’antiquario) bevendo sangiovese frizzante, quello “vero” secondo una discutibile tesi dell’anarchico che aveva una certa acredine per i sangiovese “moderni” che vogliono imitare inimitabili vini francesi.
Ma prima di pubblicare l’articolo su quello che si preannunciava come una clamorosa sostituzione di lampadari in un santuario bisognava “sceneggiare” tutta la vicenda.
Per prima cosa fu mandato il fotografo ad immortalare i nuovi lampadari, non senza difficoltà visto che mi telefonò dal santuario spiegandomi che gli avevano fatto “un sacco di pugnette, non volevano che fotografassi, poi ci sono riuscito rientrando di nascosto, ho gli scatti anche da vicino”.
Quindi l’antiquario anarchico mise a confronto le fotografia dei lampadari originali con quelli “nuovi” facendo notare tutte le differenze come nella famosa rubrica enigmistica. Il tutto diventò un magnifico grafico con un articolo di supporto che dimostravano, senza alcun dubbio, che i lampadari tornati al santuario non erano quelli originali.
Naturalmente quando uscì l'articolo si alzò un bel polverone. Insomma che degli “uomini di fiducia” del vescovo avessero prelevato dei lampadari antichi di un santuario e ne avessero portati di nuovi che avevano ben poco a che fare con i manufatti originali, era più di una curiosità ed infatti la sempre efficiente Procura aprì un’inchiesta. Naturalmente arrivarono anche le smentite e le accuse nei nostri confronti.
La storia andò avanti per un po’ con mio grande divertimento. Quindi giunse in città il celeberrimo critico d’arte che aveva già nel mirino il vescovo per alcuni lavori effettuati, a suo dire in maniera disastrosa, nella principale chiesa cittadina. Partì il secondo sopralluogo, noi sempre sulla Golf, mentre il celeberrimo critico arrivò con auto blu e solito codazzo di assistenti e dame infatuate che però nell’occasione si comportò con discrezione. La seconda perizia confermò la prima tesi e fu seguita da un’intervista in cui il celeberrimo critico, con la sua solita dialettica tonitruante, riversò quintalate di contumelie contro l’operato del vescovo.
Il caso esplose: pareri, giudizi, analisi pro e contro, prese in giro e repliche piccate. Poi arrivò anche una querela della Diocesi, molto articolata, dove si spiegava che era in atto da parte del giornale una campagna denigratoria nei confronti del Vescovo.
Eravamo ormai in estate. L’antiquario mi telefonò dicendomi che mi invitava a pranzo perché una persona mi voleva vedere.
Faceva un gran caldo, ci mettemmo all’ombra in attesa dell’ospite. Era uno dei famosi uomini di fiducia del Vescovo, un giovane antiquario, di bel aspetto, vestito con ricercata eleganza.
Più che un pranzo fu una confessione: il bel giovane spiegò che da tempo era in rapporti di amicizia con il vescovo per la comune passione per l’arte e che il presule che aveva chiesto a lui e al suo collaboratore, che era anche il suo compagno, di “sistemare” quei lampadari che erano di un certo pregio e andavano valorizzati. Il primo articolo pubblicato dal giornale si era frapposto alla loro operato e, in fretta e furia era stato incaricato un artigiano di produrre nuove parti dei lampadari a cui erano stati assemblati elementi originali. A questo punto le lacrime del bel giovane si mescolavano all’acqua del secchiello che scendeva dalla bottiglie di vino bianco che io e l’antiquario sorseggiavamo ascoltando con partecipazione ed empatia la confessione.
Il pranzo finì con un atto di contrizione. Salutammo il bel giovane e proseguimmo verso il giornale. L’anarchico mostrò la sua generosità: “Dai, adesso basta, sappiamo tutto, è un bravo ragazzo ed è un amico, lasciamo perdere. Ci siamo divertiti, abbiamo scritto una bella storia, cosa vuoi di più?”
“Per me non c’è problema - risposi - solo che c’è una querela dove mi chiedono un sacco di soldi e devo dimostrare che ho ragione”.
Tutto sembrava finito: la querela e l’inchiesta proseguivano con i tempi della giustizia italica. Il tribunale aveva nominato l’antiquario anarchico come perito nella vicenda.
Poi verso l’autunno un altro colpo di scena.
Sempre alla mattina mi chiamò la segretaria: “Ho qui davanti a me una persona che dice di avere importanti notizie sulla vicenda dei lampadari, la faccio passare?”
“Certo” risposi e pochi minuti dopo mi ritrovai davanti un altro bel giovane con atteggiamenti molti originali e che celava un’evidente tensione.
Esordì con una cannonata: “Sono, anzi ero, il compagno e collaboratore dell’antiquario incaricato di sistemare i lampadari. Conosco tutta la vicenda e se vuole gliela racconto”.
Naturalmente lo pregai di andare avanti. La storia era simile a quella raccontata dal primo bel giovane ma con alcune differenze fondamentali: il vescovo li aveva incaricati di sistemare i lampadari, avevano iniziato l’opera ma si erano accorti che con i pezzi originali riutilizzabili si sarebbero potuti assemblare in maniera originale solo un paio di lampadari. Restavano molti pezzi ma a quel punto la liason tra i due bei ragazzi ebbe una repentina conclusione. Il giovane che avevo davanti, nel baraonda della fine della loro storia d’amore, aveva portato via dalla casa in cui vivevano vari scatoloni, tra questi anche quelli che contenevano i pezzi dei lampadari. Così il suo ex compagno, pressato dall’articolo in cui il giornale chiedeva, a nome dei pii uomini, che fine avessero fatto i lampadari, si risolse a rivolgersi ad un artigiano a produrre dei lampadari nuovi, con alcune parti originali, vagamente somiglianti a quelli antichi.
A quel punto lo interruppi: “Scusi, ma se ci sono lampadari ricomposti con i pezzi originali che fine hanno fatto?”
“Non lo so”, disse sorridendo, poi si congedò.
Adesso la storia era più chiara, anche si si trattava sempre di versioni parziali. Mancava da sistemare la vicenda della querela presentata dalla Diocesi e vedere che fine facesse l’inchiesta della Procura.
Prima arrivò una doccia gelata: la procura archiviò l’inchiesta sulla scomparsa dei lampadari. Adesso ero nei guai.
La notte mi precipitai alla ricerca dell’antiquario anarchico e lo vidi circondato da un gruppo di persone che ridevano e scherzavano. Lo aggredii con una serie di insulti ed offese di cui ancora mi vergogno. La gente mi guardava sbalordita, lui non replicò.
Me ne andai perché se fossi rimasto probabilmente sarebbe finita male.
Lui mi inseguì e mi fermò, con calma mi disse: “Capisco la tua incazzatura, ma non potevo fare diversamente”.
Mi calmai un attimo: “Sì, ma la perizia cosa dice, visto che l’inchiesta è stata archiviata?”.
“Ho scritto - rispose - la verità, che i lampadari sono praticamente nuovi e non possono neppure essere considerati dei falsi e che sono state utilizzate le parti ancora integre di quelli originali, anche sulla base di questa perizia il pm ha chiesto l’archiviazione e il giudice ha concordato”.
Rimasi in silenzio e me ne andai. Adesso dovevo difendermi dalla accuse della Diocesi e dalla causa di risarcimento danni per decine di migliaia di euro.
Gli emissari si misero al lavoro. Arrivò l’editore a dirmi che il “Sant’Uomo” voleva incontrarmi.
Il “Sant’Uomo” era un imprenditore eccezionale, di solidissima fede che aveva fondato una multinazionale di successo e che aiutava con generosità la diocesi: dagli aiuti ai bisognosi alla innumerevoli attività sociali della Chiesa. Viveva di poco o nulla e i suoi guadagni servivano in gran parte ad aiutare gli altri.
Il Sant’Uomo venne nel mio ufficio, prese il discorso alla larga e alla fine arrivò al dunque: “Non si può scrivere tutto, scusa: ma se tuo padre fosse un ladro, lo scriveresti?”
“Sì” risposi senza alcun dubbio.
“Ho capito, replicò, non c’è niente da fare, mi spiace, ma ricordati che un giorno avrai bisogno degli altri e non puoi vivere da solo contro tutti”. Poi si alzò e se ne andò con un sorriso amaro aggiungendo: “Mi spiace, sei un bravo ragazzo, ma questo punto la causa andrà avanti”.
Ci fu poi un ulteriore tentativo di mediazione: arrivarono nel mio ufficio un principe del foro e un alto prelato della diocesi offrendomi una soluzione extraprocessuale: avrei dovuto pubblicare a mio nome una lettera di scuse che era già stata preparata da loro e il giornale avrebbe dovuto sborsare una bella cifra da destinarsi ai bisognosi.
“Facciamo così - risposi -, sui soldi da destinarsi ai bisognosi parlate con l’editore, magari lo fa anche volentieri, per quel che mi riguarda non pubblicherò quella lettera di scuse, andiamo al processo. In aula racconterò quello che so, cioè che il vescovo aveva rapporti di stima e amicizia con una coppia di omosessuali a cui ha affidato un incarico che non è stato rispettato, che ci sono sei lampadari falsi in un santuario e che con i pezzi originali sono stati composti altri lampadari che non si sa che fine abbiamo fatto”.
La discussione terminò all’istante, i due se ne andarono con un saluto di cortesia. Non sentii più parlare di quella querela e la storia dei lampadari diventò una sorta di leggenda locale con mille versioni, tutte sbagliate, che sentivo raccontare nei locali, nei salotti, nelle redazioni e nelle sagrestie da persone che millantavano di esserne state protagoniste. Sorridevo e non dicevo nulla.
Io e l’anarchico continuammo a vederci, ma qualcosa si era rotto. Quando morì provai un dolore fortissimo, cose se avessi perso uno di famiglia.
Ogni tanto si favoleggiava di un paio di lampadari originali. Qualcuno mi disse di averne visto uno in vendita a Roma, altri sussurravano che un altro facesse bella mostra di sé in un salotto bene delle città.
Chissà, le vie del Signore sono infinite e forse un giorno ricompariranno nel santuario…
Per quel che mi riguarda avevo fatte mie le parole dell’anarchico: “ci siamo divertiti, abbiamo scritto una bella storia, cosa vuoi di più?”.