di Paolo Pagliaro
L'abolizione del Reddito di Cittadinanza in Italia è stata accompagnata da una narrazione secondo cui questa misura disincentivava la ricerca di lavoro, soprattutto nei settori con carenza di manodopera come il turismo e l'artigianato. La realtà post-abolizione, tuttavia, sembra raccontare una storia diversa.
I dati disponibili non mostrano quell'afflusso massiccio di lavoratori che era stato previsto. Questo suggerisce che il problema dell'offerta di lavoro in alcunisettori abbia radici più profonde e complesse di quanto la semplice equazione "sussidio = pigrizia" lasciasse intendere. Il nodo centrale sembra essere quello dei salari. In molti settori le retribuzioni sono rimaste stagnanti a fronte di un aumento del costo della vita. Un impiego stagionale o precario che offre una retribuzione appena sufficiente per la sussistenza, spesso senza adeguate tutele, non rappresenta una prospettiva attraente, con o senza alternative di sostegno.
Va considerato anche il tema della qualità del lavoro offerto. Orari estenuanti, contratti precari, scarsa possibilità di crescita professionale e condizioni di lavoro difficili caratterizzano molte delle posizioni disponibili nei settori in crisi. Non si tratta solo di quanto si guadagna, ma anche di come si lavora. Attribuire al Reddito di Cittadinanza la responsabilità della carenza di manodopera appare quindi una semplificazione che non tiene conto della complessità del mercato del lavoro italiano. Più che disincentivare il lavoro, il RdC aveva probabilmente innalzato la soglia minima di dignità lavorativa che i cittadini erano disposti ad accettare.
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