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ALBERTO ASOR ROSA: SCRITTORI, POPOLO E SOLITUDINE

Occhi felini, bianco puro di baffi e capelli, eleganza classica, è il miglior testimone, forse l’ultimo, della militanza in letteratura. Quando scrisse “Scrittori e popolo”, con ogni probabilità, non immaginava che l’associazione era tra due parole in via d’estinzione, sia separate, lo scrittore da una parte, il popolo dall’altra, sia e soprattutto insieme. Il dibattito avviato nella seconda metà degli anni Sessanta era molto denso e appassionato, ma a ripensarlo ora la parola “vintage” è ancora poco; sembra preistoria. Chi era convinto che l’intellettuale dovesse impugnare la penna come i partigiani imbracciavano i loro fucili arrugginiti, e contribuire così alla lotta di classe, chi aveva una visione meno belligerante e si figurava l’ingresso della letteratura nella vita come mimesi, portando per così dire in scena il popolo stesso, ed era quello l’impegno. Vedere ora Alberto Asor Rosa camminare nei corridoi della facoltà di Lettere e Filosofia di Roma, che fu nel Sessantotto un epicentro della rivolta più informata, è vedere sfilare quell’epoca. Qualcuno nel ’77, in pieno movimento cosiddetto creativo, scrisse sul muro della Sapienza: “Asor Rosa, sei palindromo”, con chiaro intento di addossargli vane colpe di qualunquismo (il palindromo dà medesimo termine se letto da destra come da sinistra, e la surrettizia strumentale ossessiva qualificazione di destra e sinistra in quegli anni era l’unica cosa più pesante del piombo). Vederlo resistere ancora, apparendo con qualche invettiva sui quotidiani, dà la misura di ciò che significa credere in qualcosa. Non c’è più la coscienza di classe, che ha lasciato il passo alla misurazione reddituale. Non c’è più dialettica tra scritture e popolo, un po’ perché il popolo non legge, un po’ perché non ha denari per comprare libri, un po’ perché il ruolo mimetico lo scrittore se l’è fatto scippare dalla televisione, in particolare dal racconto popolare per eccellenza che è la soap opera. Ma c’era tutta un’altra letteratura. C’era per esempio Eugenio Montale, che certo non era tra i poeti più engagé, il quale al Professore dedicò dei versi: “Asor, nome gentile (il suo retrogrado/ è il più bel fiore)/ non ama il privatismo in poesia./ Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia/ producesse un quid simile o un’affine/ sostanza, il che purtroppo non accade./ La poesia non è fatta per nessuno,/ non per altri e nemmeno per chi la scrive./ Perché nasce? Non nasce affatto e dunque/ non è mai nata. Sta come una pietra/ o un granello di sabbia. Finirà/ con tutto il resto. Se sia tardi o presto/ lo dirà l’escatologo, il funesto/ mistagogo che è nato a un solo parto/ col tempo – e lo detesta”. Non era una poesia particolarmente amorosa nei confronti di Asor benché gli offrisse una rosa in forma di retrogrado, ma non è questo il problema; la nostalgia nasce dalla sparizione di quella dialettica, di tale altezza, che rende il nanismo culturale del presente ancora più contratto, rifugiato nel privatismo che non piace ad Asor, che ha creduto di poter parlare a un insieme quando forse era già solo.

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