Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

La Consulta e il licenziamento nelle piccole imprese

La Consulta e il licenziamento  nelle piccole imprese

di Oronzo Mazzotta*

         La recente sentenza della Corte costituzionale sul licenziamento nelle piccole imprese (n. 118 del 2025) merita un veloce commento, quasi un flash, perché non può passare sotto silenzio il messaggio profondo che ci manda. Alla Corte – in soldoni – è stato chiesto se è ragionevole un sistema nel quale per i lavoratori delle piccole imprese (quelle sotto sedici dipendenti) la sanzione contro il licenziamento illegittimo debba oscillare fra tre e sei mensilità di retribuzione. E la Corte ha detto che sì il sistema è irragionevole avendo in particolare riferimento al tetto massimo di sei mensilità considerato assolutamente inadeguato. Il risultato è che – fino a quando non interverrà di nuovo il legislatore – la discrezionalità del giudice potrà spaziare, in relazione al singolo caso, fra tre e diciotto mensilità (la metà di quanto è previsto per i datori con oltre quindici dipendenti).

         Volendo fare un breve riassunto delle puntate precedenti la questione circolava sotto traccia (ma nemmeno tanto) da un po’ di tempo, ma in una precedente occasione la Corte aveva per così dire graziato il legislatore, invitandolo a rivedere l’intera materia e soprattutto a ridisegnare le sanzioni avverso il licenziamento illegittimo (quello che i giuristi chiamano “apparato sanzionatorio”). Il sistema infatti, secondo la Consulta, era frutto di stratificazioni successive e necessitava di ben di più che di una semplice manutenzione per renderlo coerente e ragionevole.

         Il momento della verità è finalmente arrivato con la sentenza del 21 luglio scorso che si fa apprezzare quanto meno sotto tre profili.

         Primo profilo. La sentenza fa definitivamente giustizia dell’idea che si possa fare politica economica con la materia dei licenziamenti, pianificando millimetricamente il costo del licenziamento illegittimo, idea del resto respinta da oltre 12 milioni di votanti al recente referendum. Ne ho già parlato su queste colonne e non mi ripeto. Aggiungo solo che quest’idea è nient’altro che l’altra faccia del timore (di berlusconiana memoria: v. il c.d. Collegato lavoro del 2010) dell’intervento del giudice in materia. È quasi inutile rilevare però che la discrezionalità del giudice e quindi la conseguente incertezza circa l’esito delle relative liti è strutturalmente inevitabile perché è la stessa legge che ha affidato al giudice il potere di determinare in quali casi si può legittimamente licenziare un lavoratore. La legge si è affidata infatti a concetti (vaghi e) indeterminati come “giusta causa” o “giustificato motivo”, che vanno in concreto riempiti di significato; e chi può svolgere questo ruolo se non il giudice? E la ragione è ovvia: è lo stesso legislatore che non potendo risolvere una volta per tutte il conflitto fra le due parti del rapporto di lavoro, ha rinviato la soluzione di tale conflitto ad un’altra autorità, per l’appunto quella giudiziale.

         Secondo profilo. Quale logica conseguenza del precedente ragionamento la Consulta ribadisce l’idea per cui il licenziamento è atto irriducibilmente individuale perché si inserisce all’interno della dinamica di un singolo rapporto di lavoro e la reazione sanzionatoria in termini economici non può essere standardizzata ed applicata a tutte le (diversissime) situazioni che quella dinamica presenta, pena l’irragionevolezza del sistema. Deve essere piuttosto calata nella singola realtà, soppesando attentamente tutti gli elementi del caso. Per la Consulta insomma, e giustamente, è irragionevole e fonte di diseguaglianze trattare allo stesso modo situazioni profondamente diverse, laddove il danno subito dal lavoratore non può che essere adeguatamente “personalizzato”.

         Terzo profilo. È il profilo maggiormente proiettato nel futuro e la cui soluzione è affidata al legislatore. La Consulta considera infatti ineludibile una revisione dei criteri per definire un’impresa “piccola” in contrapposizione ad una “grande”. Fino ad ora e da tempo immemorabile (dovremmo dire dal dopoguerra) la diversificazione del trattamento, in varie situazioni, è stata riferita sempre e soltanto al numero dei dipendenti occupati (nel caso: più o meno di quindici). I tempi sono maturi (e lo sono da lunga pezza) per adottare criteri più ampi, come ad esempio quello del fatturato o il totale del bilancio. È di comune esperienza il rilievo che l’informatica consente fatturati importanti anche con un esiguo numero di dipendenti.

         La domanda è allora: il legislatore risponderà “presente” o protrarrà ancora la sua latitanza?

 

* Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa

 

(© 9Colonne - citare la fonte)