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Europa e Stati Uniti
il grande rebus dei dazi

Europa e Stati Uniti <br> il grande rebus dei dazi

di Paolo Pombeni

A che punto è la guerra dei dazi fra Europa e Stati Uniti? Trump proclama che è finita con un ottimo accordo, ma fa parte della sua retorica che deve sempre vederlo trionfatore. In Italia il teatrino è il solito dominato dalla politica interna: il governo dice che è andata bene, ma per la verità avanza anche fra le righe qualche cautela, le opposizioni gridano al disastro dovuto alla resa di Meloni al tycoon di Washington.
La faccenda è tutt’altro che semplice da interpretare. Bisogna tenere conto che si è trattato per la UE di una partita molto difficile che aveva due grandi incognite: valutare l’impatto di una guerra commerciale senza limiti e tenere unita la compagine degli stati membri. Partiamo dal secondo punto e poi passiamo al primo.
Non ci si fermi sulle posizioni barricadiere di Macron e, un po’ meno convinte, di Merz, che avevano prospettato una risposta dura e una controffensiva per non cedere alle richieste di Trump. Si tratta in realtà del solito gioco del poliziotto cattivo e del poliziotto buono, perché né i francesi né i tedeschi sono nella posizione di affrontare una crisi del commercio fra Europa e USA. Altrettanto vale per chi, come l’Italia, spingeva per l’accordo anche se poco favorevole: non ci si muoveva tanto per simpatia verso il presidente USA, quanto per la valutazione che alla fine sarebbe stato meno rischioso trovare un compresso anche se al ribasso.
Per queste ragioni alla fine tutti hanno convenuto che non si poteva correre il rischio di spaccare l’Europa, facendo così il gioco di Trump, visto che, purtroppo, la possibilità di mettere veramente sul piatto tutto il peso economico della UE era molto relativa. Non si può valutare tutto solo col metro dell’export, ci sono le partite internazionali, delicatissime in questo momento e nelle quali il vecchio continente non riesce, per vari motivi, ad esercitare una posizione rilevante (non parliamo di poter fare da solo, il che è, ahimé, escluso).
Certo una leadership comunitaria più robusta di quella di von der Leyen avrebbe aiutato, ma è ingiusto addossarle tutte le colpe: molto arduo esercitare una grande leadership se tutti non ti vogliono lasciare lo spazio e se non hai le strutture, non solo burocratiche, ma anche culturali, veramente all’altezza della sfida.
Detto questo torniamo al primo punto: possiamo permetterci una grande crisi delle relazioni economiche fra USA e UE? Perché di questo si tratta: nella prima fase di una guerra commerciale come quella prospettata dallo scontro duro fra Trump e l’Europa bisogna scontare un momento durissimo per le nostre industrie e per il nostro sistema economico. Saremmo in grado di reggerlo? Questa è la domanda, angosciante, che si sono posti tutti i centri europei che dovevano decidere. Come si sa non è che il sistema economico europeo sia in una situazione brillante. Sopportare una contrazione dell’’export sarà dura, gestire un quadro coi mercati allo sbando sarebbe la classica missione impossibile: basti pensare ai riflessi disastrosi che una situazione del genere avrebbe sugli equilibri sociali (disoccupazione, inflazione, ecc. ecc.) in sistemi in cui la forbice delle diseguaglianze si sta divaricando sempre più.
Si dice che naturalmente anche gli USA avrebbero da soffrire non poco per lo sconvolgimento del quadro economico ed è vero, ma va tenuto conto che sono in posizione momentaneamente migliore per assorbire una crisi, specie se potranno presentarla come dovuta alla cattiveria dei suoi alleati: non da ultimo perché sono comunque un sistema unitario, così come lo sono la Cina o su scala minore il Canada che hanno potuto trattare sui dazi a muso duro, il che non è in Europa (leggersi i rapporti di Draghi e Letta per avere consapevolezza della nostra situazione).
Detto questo, non è sensato valutare quel che si è deciso semplicemente a livello di quanto si è sottoscritto. Il primo punto è che non è detto che gli impegni dell’Europa saranno rispettati diciamo così alla lettera. Abbiamo già visto che le promesse si aggirano, si manipolano, si adattano all’evoluzione della situazione. Per dire, molto dipenderà dagli sviluppi della situazione internazionale. Se le grandi guerre in corso in Medio Oriente e in Ucraina trovassero almeno una stabilizzazione, si aprirebbero margini di manovra per l’Europa che non sono possibili se siamo sempre sull’orlo di una catastrofe dell’equilibrio mondiale.
Un altro elemento che peserà è il futuro dell’amministrazione Trump. Qualche segnale di indebolimento serio si coglie e presto vedremo se le elezioni di metà mandato cambieranno o meno gli equilibri di Camera e Senato negli USA: non sarà un passaggio da poco.
Vedremo anche se davvero il sistema economico europeo sarà costretto a ristrutturarsi in modo da guadagnare in stabilità e competitività: anche in questo caso le possibilità ci sono, a cominciare dalla espansione verso nuovi mercati alternativi al modello dominante incentrato sull’America.
Le partite in politica non si chiudono in un solo episodio chiave e molto dipenderà anche dalla situazione interna alla UE. Al momento tutto è in subbuglio, la lotta per l’affermazione di nuove egemonie e di nuovi equilibri è in corso più o meno in tutti i paesi membri (e anche in Gran Bretagna che è di fatto una specie di “compagno di strada” sempre più coinvolto). Non sono affatto dettagli secondari.
Se ci sarà capacità di capire la delicatezza del passaggio che abbiamo di fronte, è per noi europei l’incognita fondamentale. C’è da augurarsi che cresca sempre più una corrente di opinione consapevole di questo e in grado di fronteggiare l’oppio populista di quelli che credono che la politica si faccia con le dichiarazioni e coi manifesti.

(da mentepolitica.it)

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