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Aveva ragione mio padre
così Israele perirà

Aveva ragione mio padre <br> così Israele perirà

di Roberto Della Seta

Come è stato possibile? Come è potuto succedere che il Paese rifugio di centinaia di migliaia di ebrei europei scampati alla Shoah, al più terrificante genocidio della storia contemporanea, sia diventato il Paese responsabile – con il suo governo, con il suo esercito, con l’aperto sostegno o nel silenzio di buona parte del suo popolo – di un nuovo terribile genocidio? Domanda difficile, per molti difensori dell’odierno Israele domanda blasfema e già di per sé un’espressione di antisemitismo perché collega il massacro indiscriminato in atto a Gaza con lo sterminio di milioni di ebrei europei. Ma domanda, io credo, decisiva anche per cercare di capire se vi sia, e quale sia, una via d’uscita dalla tragedia di Gaza, un futuro magari lontano ma plausibile di convivenza pacifica sulla stessa terra tra ebrei israeliani e palestinesi.
Naturalmente, “capire” non è la prima urgenza di fronte alle decine di migliaia di civili assassinati da Israele dopo il 7 ottobre. E per alcuni, qualcuno l’ha anche scritto, discutere del perché Israele si sia ridotta a Stato genocidiario, sposta l’attenzione dal campo delle “vittime” – i palestinesi – a quello dei “carnefici” – gli israeliani e i molti ebrei del mondo che a Israele hanno sempre visto come a una loro seconda patria. Io non la penso così, io credo che chiedersi “come sia stato possibile?”, e provare a rispondere, sia un passo importante anche per porre fine all’attuale genocidio.
Finora sono venute soprattutto due risposte, lontane tra loro, da chi riconosce nella guerra di Israele a Gaza i caratteri di un genocidio. Prima risposta: è colpa di Netanyahu e della destra israeliana oggi al governo, che non solo ha condotto Israele a macchiarsi di crimini orrendi ma lo sta portando – come nel titolo del bellissimo libro di Anna Foa – al suicidio. Seconda risposta: la condotta criminale di Israele a Gaza, dunque le malefatte di Netanyahuu e soci, non sono che l’esito ultimo e più terribile del peccato originale da cui è nato lo “Stato ebraico”; peccato di segno squisitamente colonialista, con cui per l’ennesima volta nella sua storia l’Europa imposto il suo dominio su altre terre e altri popoli.
Credo ci sia verità in entrambe le risposte, ma credo che nessuna delle due basti a sé stessa. Netanyahu, molti suoi ministri, sono né più né meno che dei criminali, e d’altra parte è indiscutibile che la creazione nel 1948 dello Stato di Israele sia stata una scelta dell’Europa compiuta certo per sanare il suo “senso di colpa” per la Shoah ma compiuta, anche, in uno spirito colonialista, senza tenere nel conto il diritto all’autodeterminazione degli arabi che da secoli vivevano in Palestina.
E però considero un errore sia rendere responsabile del genocidio di Gaza solo il governo Netanyahu, sia rappresentarlo come la manifestazione estrema di un crimine – l’esistenza stessa dello Stato di Israele – che comincia nel 1948.
La degenerazione nazionalista, infine criminale, dello Stato di Israele non comincia dopo il 7 ottobre e non comincia con Netanyahu. È stata un lungo processo. Dovendo identificarne una tappa decisiva, la indicherei nel 1967, quando Israele dopo la “guerra dei sei giorni”, dando inizio all’occupazione stabile, che dura da sessant’anni, di territori sottratti ai tre paesi – Egitto, Giordania, Siria – che l’avevano aggredito ed erano stati sconfitti, ha smesso nei fatti di essere una democrazia. Da allora lo Stato di Israele governa su milioni di persone che in Israele non votano, e questa con piena evidenza è una condizione di non-democrazia. I territori occupati, inizialmente conseguenza di uno “stato di eccezione”, una volta ricompresi sine die dentro i confini di fatto di Israele, ne hanno cancellato – o almeno sfigurato – l’essenza democratica.
Questo progressivo sgretolamento di Israele come Stato democratico è stato certamente, per una parte, reattivo, cioè condizionato dalla radicale ostilità di segmenti rilevanti del mondo arabo mediorientale verso la sua stessa esistenza – che oggi ha il volto anch’esso degenerato di Hamas, dell’orrore del 7 ottobre, delle immagini raccapriccianti degli ostaggi israeliani mostrati come trofei -, ma che risponde anche a dimensioni totalmente interne all’identità ebraico-israeliana, dunque all’idea sionista. Il sionismo è nato a cavallo tra Ottocento e Novecento come risposta all’urgenza di “inventare” una via di scampo, letteralmente di fuga, per gli ebrei della diaspora discriminati e perseguitati da secoli, e ha ricevuto poi una spinta e una legittimazione morale formidabili dalla tragedia immensa della Shoah. Ma è stato, il sionismo, un movimento e un pensiero quanto mai plurale. Aveva dentro di sé un’anima umanitaria e anti-nazionalista, minoritaria, che da molto prima del 1948 attraverso sue voci importanti – Martin Buber, Judah Magnes, Hannah Arendt – teorizzava la nascita di uno Stato binazionale in cui convivessero con pari dignità e diritti ebrei e arabi. E ne aveva una – da Vladimir Zabotinski fino alla formazione paramilitare e terrorista dell’Irgun attiva in Palestina dagli anni Trenta – fortemente nazionalista, che progressivamente ha impregnato di sé la “costituzione materiale” di Israele.
Nessuna via d’uscita realistica dal male non so se “assoluto” ma certo sconfinato che si vede a Gaza può prescindere dalla messa in discussione di sé stessi, di ciò che Israele è diventato, da parte degli ebrei israeliani. Gli ebrei della diaspora, che per tradizione e sentimento mantengono un legame affettivo forte con Israele ma non sono direttamente coinvolti nella guerra, possono fornire un contributo importante in questo senso. Molti lo stanno facendo da tempo, esempio più recente un appello promosso da alcuni intellettuali e attivista ebrei italiani (tra loro Roberto Saviano, Anna Foa, Gad Lerner, Helena Janiczek, Stefano Levi della Torre) che chiede all’Italia di riconoscere subito lo Stato di Palestina. Sono, siamo, una minoranza all’interno del mondo ebraico italiano ed europeo? Probabilmente sì, ma come insegna la storia accade spesso che ad operare grandi cambiamenti – nelle mentalità collettive e poi anche nei fatti concreti – siano esigue minoranze.
Infine, voglio concludere con una nota personale. Mio padre, Piero Della Seta, dirigente comunista, fu uno dei primi ebrei italiani a esprimersi pubblicamente contro l’espansionismo di stampo coloniale di Israele. Lo fece già nel 1967 all’indomani della “guerra dei sei giorni”, con articoli sull’Unità in cui scriveva che l’occupazione di territori popolati soltanto da arabi – allora oltre alla Cisgiordania, il Golan siriano e la Striscia di Gaza e il Sinai egiziani – comprometteva irreparabilmente le basi democratiche dello Stato di Israele.
Pochi mesi dopo, il giornale della comunità ebraica romana – “Shalom” – gli dedico un editoriale intitolato “Il Quisling ebreo”: mio padre, per “Shalom”, era la replica del norvegese Quisling traditore del suo popolo, a capo tra il 1942 e il 1945 di un governo filonazista che durante l’occupazione tedesca del suo Paese partecipò attivamente alla deportazione degli ebrei norvegesi nei campi di sterminio. Piero Della Seta, come oggi pare evidente, aveva ragione, e dovendo dare un volto contemporaneo al criminale Quisling, a me vengono in mente le facce di Bibi Netanyahu e dei suoi ministri razzisti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
(da strisciarossa.it)

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