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La sfida di Shanghai
e l’Europa che balbetta

La sfida di Shanghai <br> e l’Europa che balbetta

di Paolo Pombeni

Dovrebbe essere impossibile trattare con leggerezza il tornante internazionale di fronte al quale ci troviamo. La conferenza della organizzazione per la cooperazione di Shanghai registra una chiara e complessiva sfida all’ordine mondiale come si è sviluppato dopo il 1945. Lo fa certamente perché quell’ordine è già di suo messo molto male, ma lo fa proponendo non di ricostruirlo in maniera adeguata, bensì di sostituirlo con un nuovo equilibrio (si fa per dire) con il perno non più ad Occidente, ma ad Oriente.

Diciamo subito che i due termini sono in verità un modo garbato per dire che al cosiddetto “secolo americano”, si sostituirà un secolo cinese, ad un impero più o meno su invito con sede a Washington, un impero con sede a Pechino, non si sa basato su quale collante per tenere insieme i suoi membri. Al momento quello proclamato è il rifiuto dell’egemonia occidentale, questione piuttosto ambigua da definire: la si presenta come una rivolta degli sfruttati contro chi per secoli li ha asserviti, cioè l’occidente euro-americano, ma poi ci si allarga, diremmo inevitabilmente a mettere in discussione il sistema costituzionale liberal-democratico che fu l’ideologia portante con cui i paesi di quell’area esercitarono la loro preminenza in nome del progresso e della civiltà.

È questo allargamento della nuova impostazione che deve preoccupare, perché, come del resto già si vede, significa che non il pur vago diritto internazionale e le garanzie delle libertà costituiranno il punto di riferimento, ma solo la forza di dominio espansivo dei nuovi sistemi egemoni, da cui deriverà per loro il diritto (?) di imporsi sugli altri soggetti, interni ed internazionali.

Basta leggere l’intervista che Putin ha rilasciato ad una agenzia cinese, ma per altro era già chiaro da tutta una serie di discorsi suoi e dei suoi collaboratori, per capire dove vuole andare a parare lo zar di Mosca, sfruttando la nuova filosofia internazionale cinese sul riordino degli equilibri mondiali (che poi questa includa davvero un ruolo chiave per la Russia sarà tutto da vedere: ovviamente per ora a Xi Jinping appoggiare il neoimperialismo post-sovietico fa gioco). Di fronte a questa sfida che è qualcosa di più e di più complesso di una competizione fra grandi potenze economiche, come sembra pensare Trump, la reazione europea è piuttosto debole. Non parliamo di quella politico-diplomatica, che sconta le problematiche di un soggetto che è più che ibrido, essendo la UE un sistema non attrezzato per un compito così impegnativo (nuovo e non previsto da chi l’ha costruita), e che sconta la collocazione incerta e priva di una sede veramente aggregante per gli altri soggetti occidentali, Gran Bretagna, Canada, stati europei non facenti parte della Unione. Attiriamo l’attenzione sulla mancanza di elaborazione storico-culturale di fronte alla sfida che al nostro sistema di organizzazione costituzionale viene lanciata in nome del cosiddetto “Sud globale” (in realtà principalmente da Russia e Cina). Vogliamo chiamarla la sfida delle autocrazie alle democrazie? Possiamo farlo, sebbene il secondo termine in Occidente sia piuttosto in crisi a cominciare dai travagli del sistema americano.
Ora è facile registrare che gli intellettuali (concedeteci di usare questo vecchio e logoro termine) sono lontani da colpi di reni in difesa del nostro sistema costituzionale liberal-democratico, intenti piuttosto a lamentazioni sulle sue imperfezioni, sui suoi limiti (talora veri, talaltra immaginari), per non dire sui suoi peccati. Sembra perciò che guadagnino spazio le demagogie che invitano a corroborare il sistema descritto come in crisi con contaminazioni più o meno robuste con le prassi e magari anche col modello delle autocrazie.
Per vedere la faccenda dalle finestre di casa nostra, rimarchiamo che mancano forze politiche capaci di farsi carico della sfida dell’ora presente. Il dibattito che una volta si definiva ideologico e che aveva sede nelle riviste, di partito e di cultura, non si sa dove trovarlo (del resto le riviste ormai sono molto poco lette). Quello dei talk non può essere strutturalmente all’altezza, anche se fossero gestiti meglio di quel che sono (non sono argomenti che si affrontano con rapide battute fra personaggi in contrasto). Nei partiti non si discute di nulla, se non di elezioni, liste, spartizione di posti, lotte di fazione (vedere quel che sta succedendo per la tornata di elezioni regionali). Il governo gestisce la quotidianità e poco più, intrappolato anch’esso dalla debolezza di un contesto che di problemi pesanti non ne vuole sapere, se non, al massimo, per farci qualche irrilevante sceneggiata.

Ci si dovrebbe seriamente interrogare se potremo affrontare il caos che sta montando a seguito di tutti i tentativi di ridefinizione degli equilibri internazionali senza disporre di strumenti più solidi delle polemiche politiche di giornata che guardano solo alla “comunicazione” per tenere insieme i propri fedeli (un buon esempio è come il gruppo dirigente PD ha organizzato le Feste del partito).
Non è una questione che si possa sbrogliare facilmente. La tematica è davvero quella di una svolta storica in atto e non è immaginabile che la si possa dominare con qualche battuta, qualche raccolta di firme per manifesti, qualche intemerata da affidare a personaggi del gran mondo populista. Un pensiero e una strategia si elaborano col tempo e con tanta fatica: cose che, spiace dirlo, non vanno più di moda.

(Da mentepolitica.it )

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