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CAMPIOTTI: IL MIO SOGNO
DI UN’ITALIA GENTILE

CAMPIOTTI: IL MIO SOGNO <br> DI UN’ITALIA GENTILE

Erano ben 22 anni che il premio Elsa Morante non veniva assegnato ad un’opera prima. “Una grande gioia ed una grande responsabilità” dice Nicola Campiotti pensando agli autori, oggi blasonati, nei cui esordi si aggiudicarono il prestigioso premio, da Elena Ferrante a Paolo Mauresing, da Marco Lodoli a Sandra Petrignani. Il suo “Tra noi tutto è infinito”, una commovente storia di formazione, in cui convivono leggerezza e dolore, ironia e profondità, è stato giudicato “solido” dalla giuria presieduta da Dacia Maraini. Una definizione che ben rimanda a quella che è la forza interiore che sorregge il romanzo, lodato anche da Wim Wenders con il quale l’autore ha lavorato nella produzione del film “Non bussare alla mia porta”. “L’ho scritto con grande rispetto per le manifestazioni della vita, inizio e fine, nascita e morte. In questo ho cercato di andare a fondo più possibile” racconta il 43enne regista, autore di film di forte tensione civile, come il recente “Il mondo sulle spalle” con Giuseppe Fiorello, ispirato alla storia vera di Enzo Muscia, l’operaio che ha aperto una azienda per riassumere se stesso ed i colleghi licenziati da una multinazionale. Scritto con una sofferta gestazione nell’arco di un decennio, dipanandosi dall’infanzia all’età adulta del protagonista, il libro sviluppa la metafora della vita come cammino con coinvolgente poeticità (Campiotti d’altronde riserva alla poesia una sua sfera molto intima). “Da bambini si fanno i propri passi in un prato verde dove è tutto gioco e divertimento. Poi il sentiero comincia a salire. Prima piano, quasi non ti accorgi che stai salendo. Poi tutto diventa sempre più ripido tanto che, ad un certo punto, ti sembra di non farcela più. E quando la vita diventa dolore allora ti sembra che il viaggio non valga più la pena, vorresti tornare indietro, mollare, vedi la cima troppo alta. Fino a quando, magicamente, arriva un moto interiore, un incontro con una persona, un accadimento che ti dà quella forza che ti permette di arrivare in cima. Alla base ci sono una serie di prove di iniziazioni e quindi l’accettazione del dolore che non è rassegnazione, tutt’altro. E’ farsi attraversare veramente da quanto ci accade, che sia un amore, un'amicizia. E’ riconoscere che solo nell'esperienza del qui e ora si superano i fantasmi del passato e si possono fare passi liberi. E’ la sfida più bella del nostro essere che conduce poi alla ricompensa, a sentire, con grande sorpresa, un sentimento di gratitudine per l'esistenza stessa. Riconoscere che la ferita era da sempre in noi e che solo noi possiamo cicatrizzarla, cogliere la vera essenza. Un maestro spirituale, Paramahansa Yogananda, addirittura dice che gli eventi della vita sono neutri e che sta a noi dargli il giusto peso. E’ una frase dura, tosta. La si può dire a chi ha perso un figlio, a chi vive sotto le bombe? E allora penso alla croce. E’ un incrocio tra due forze, una orizzontale ed una verticale. In essa si intreccia una energia che trascende ed una che invece discende da te ed è in questo incontro che possiamo ri-nascere, come succede ad un bambino quando due energie si mettono insieme”.

Una storia toccante che ha conquistato lettori di ogni età tanto da condurre felicemente in questi giorni alla seconda edizione (per Sperling & Kupfer, il libro è disponibile in libreria e su Amazon e come audiolibro su Audible con la voce dello stesso autore). “E’ vero, molti mi hanno detto che hanno ritrovato qualcosa di se stessi leggendo il mio libro. E mi rende grato perché in esso c’è anche tanto di me stesso. Ed è fantastico che il libro sia arrivato anche in qualche scuola superiore, perché possa aiutare a cambiare schema in quei ragazzi che oggi mi sembrano confusi, più soli di una volta e che, oppressi dalle paure, pensano di scoprire il mondo solo da uno schermo, rinunciano a viaggiare, rischiare. Lo stesso Teo Luci (il protagonista con un nome che è un significativo gioco di parole tra theos, dio in greco e luce, ndr) si sarebbe perso se non avesse incontrato una insegnante come la prof Marini, con la sua proverbiale ironia capace di vedere ogni cosa da un punto di vista diverso, una compagna come Vera…” prosegue Campiotti (intense le pagine del primo contatto fisico, uno totale “sciogliersi”, l’accecante affacciarsi del sentimento oceanico di fusione con l'universo, che avviene nello spazio più precario e incerto, il traballante passaggio tra i vagoni di un treno) che ha vissuto in prima persona la perdita traumatica al centro del libro, riuscendo a trasformarne il dolore senza perdere la passione per la vita, in equilibrio nel difficile mestiere di essere umani.Ho un alunno dagli occhi azzurri e dai denti bianchi che svetta in terra come una bandiera nel cielo. Per vivere ha bisogno di essere felici e, quando prega, Teo lo fa per tutti. E’ diventato pianta senza seccarsi, si è confuso con la terra senza sotterrarsi, si è diluito nell’acqua senza annegare”. E’ la descrizione che la professoressa Marini fa di Teo nel romanzo (e non si può non riconoscere in queste parole la descrizione dello stesso scrittore) quando il ragazzo si va trasformando in adulto scoprendo la “sapienza dell’amore”, trovando nella notte la porta sulla vita. “Non tutto quello che ci attraversa deve essere dentro a una terra comune. C’è una terra prima di quella comune, una terra dentro, nascosta, che nessun amante può guardare, che nessun figlio può toccare o sentire” si legge nelle pagine del romanzo in cui la pacificazione si affaccia dopo il più lancinante dei dolori, la caduta dopo la passione più forte, l’amore più puro (“Nessuna dea corse giù dall’olimpo per svegliarmi, nessun cristo scese dalla croce a indicarmi la strada dove avrei dovuti precipitarmi”). “La mia sfida col mistero dello spazio fu scegliere le latitudini che lei per me quegli spazi li avesse riempiti piuttosto che cedere alla disperazione che lei di sé quegli spazi li avesse svuotati”, il grande “azzardo” esistenziale, la “pietra angolare” con cui costruire bellezza dalle macerie del dolore.

 

Il romanzo, in questo commovente incedere, porta in sé la spinta trasformativa che Campiotti vorrebbe appartenesse a tutti. Passione, sensibilità, partecipazione, creatività, gentilezza e soprattutto generosità. “Per me la generosità dovrebbe avere uno status sociale, è la qualità che più mi appassiona. Coloro che fanno qualcosa per gli altri senza avere niente in cambio, che sono disposti a fare cose che altri non farebbero dovrebbe portare una coccardina rossa… E come in Miracolo a Milano di Vittorio De Sica salutare tutti la mattina dicendo ‘buongiorno. Non banale ma rivoluzionario” afferma Campiotti mentre ci incontra in un bar di Monteverde nuovo, il quartiere romano che da 4 anni lo ha “adottato” – come dice lui stesso - grazie alla sua compagna, l’attrice e maestra di yoga Evita Ciri, figlia di Paola Pitagora, monteverdina da una vita (e nel romanzo stesso ci sono diversi accenni al quartiere, dalla torta Sacher della pasticceria di via Barrili cara allo stesso Nanni Moretti, alla discesa di via Valla, a Villa Pamphili). “Qui riesco a sentirmi dentro una comunità, il gruppo dei genitori dei miei figli, i negozianti che mi salutano, il barista che non vuole farmi pagare il caffè, la libreria sotto casa, i cittadini che si uniscono per curare il proprio territorio, associazioni come Monteverde Attiva, una piazza come largo Ravizza diventata l'ombelico del mondo per il suo incrocio di culture. Scendere dal colle di Monteverde in bici fino in centro (ho fatto quasi 5mila km in 4 anni!), il verde di Villa Pamphili ed un quartiere ancora popolato da tanti bambini… E’ questa la risposta più potente che abbiamo contro l'individualismo e l’odio sociale ma anche alla crisi stessa del pianeta, alla guerra. Crescere in un ambiente in cui possiamo mostrare il nostro lato gentile, civico, il nostro famoso ‘I care’. Perché se mi interessa il destino del mio quartiere mi interessa anche quello del pianeta. E’ la nostra piccola resistenza quotidiana in un mondo che scaglia bombe, che ci illude con la tecnologia di essere connessi, ma ci obbliga a vivere in una realtà distorta e solitaria. La chiave è coltivare relazioni vere, le uniche che davvero contano per farci scoprire chi siamo. E quindi soffro quando leggo di cronache in cui questo senso di comunità appare smarrito, quando si dà l’immagine di un paese disunito, incompiuto, alla ricerca di una ripartenza che non arriva. E allora mi appello a quell’amico fragile cantato da Fabrizio De Andrè che si sentiva ‘meno stanco di voi’. Sono le persone che hanno energia, che non si demoralizzano, che vanno oltre al livello iniziale nelle relazioni, che oltrepassano la siepe per trovare l’Infinito, come scriveva Leopardi.  Oltre l’ego, oltre la ragione, oltre i ruoli. In una costante rimessa in discussione di se stessi e del proprio rapporto con gli altri. Una dimensione più complicata da seguire, rischiosa, ma l’unica realmente autentica. E’ questo che il mio libro, come anche i miei film, cercano di trasmettere”.

Nicola Campiotti è cresciuto in quella che chiama una famiglia con la “febbre del cinema”. Il padre, Giacompo Campiotti, già aiuto regista di Mario Monicelli, è stato il regista della serie televisiva “Braccialetti Rossi” (per il quale lo stesso Nicola nel 2016 ha diretto una seconda unità) e la madre ha curato l’ufficio stampa di registi importanti, da Bertolucci da Tornatore. Nel romanzo, Teo, in questo alter ego dello scrittore, parla del “cinema sovrano assoluto con il potere di regnare su tutto quello che mi circondava” e dello “spaesamento” e dell'“ebbrezza provocati dalla perenne immersione nella finzione”. Che, negli anni, per Nicola Campiotti, diventa mezzo di ricerca nell’umano e di rimando di sensibilizzazione civica (d’altronde è laureato in filosofia, disciplina che continua ad accompagnare la ricerca nel proprio essere e nella “capacità di vivere”, come testimonia la sua tesi di laurea dedicata a Pierre Hadot, Maria Zambrano e Raimon Panikkar). Nel 1999 recita nel film di Gabriele Muccino “Come te nessuno mai” (Muccino aveva chiesto al fratello Gabriele di presentargli dei suoi amici per fare gli attori e Nicola era tra questi) e poi firma documentari per ong, in Kosovo, Montenegro, Bosnia, Egitto, Zambia, India e Stati Uniti. Tra il 2002 e il 2003 dirige il documentario “Parole d’Ercolano” che spiega le ragioni dell’abbandono scolastico tra i bambini della periferia napoletana seguito dal corto “L’era dell’ottimismo” sulla chiusura di un negozio di alimentari schiacciato da un grande centro commerciale. Si annoverano anche le esperienze del 2004 con Win Wenders ed il lavoro come assistente alla produzione di Quantum of Solace del 2008, capitolo della saga di James Bond. Dal 2010 al 2013 lavora al suo primo lungometraggio, “Sarà un Paese”, la storia di Elia, dieci anni, che lo stesso regista accompagna per l’Italia, mostrando i problemi del nostro paese attraverso gli stessi occhi del bambino. Un lavoro teso più sulla speranza che alla denuncia e che, con il patrocinio di Unicef e Libera, viene rifiutato da importanti festival. “Senza quei no, senza quegli ostacoli molto probabilmente avrei fatto molto di meno di quanto ho fatto” la replica di Campiotti che, prendendola con filosofia nel vero senso della parola, nel 2009 firma il corto “399 B.C”., liberamente tratto dall’Apologia di Socrate di Platone, trasportando la morte di Socrate nella New York contemporanea. Poi arrivano due film per Rai Uno, entrambi ispirati a storie vere, nel 2019 “Il mondo sulle spalle” con Fiorello (che ha totalizzato un record di 5 milioni di spettatori) e nel 2023  “La stoccata vincente” in cui Alessio Vassallo interpreta Paolo Pizzo, due volte campione del mondo di spada (nel 2011 e nel 2017) dopo aver affrontato la sfida di un tumore al cervello in un percorso di guarigione in cui è stato fondamentale il sostegno del padre (interpretato da Flavio Insinna). “Provo con questi miei lavori a risvegliare le coscienze rispetto a una società che sembra sempre più superficiale. Ora sono al lavoro su alcune cose. Continuo a lavorare, a scrivere progetti, su storie che meritano di essere raccontate. Sempre con quello che Maria Zambrano chiamava il sapere delle viscere, che sentiamo quando entriamo dentro a qualcosa che ci risuona veramente come anche nella penombra toccata d’allegria, l’atto di libertà di poter lasciarsi illuminare non rinunciando a vivere la vita in tutte le sue sfaccettature, anche le più dolorose”. Un po’ come la profonda frase che Campiotti, in un romanzo di giovanile formazione, riserva all’età più malinconica, quella della vecchiaia, osservando come la professoressa Marini invecchiando andasse facendosi più bella, “come se l’arrendersi alla senilità corrispondesse a beneficiare di una nuova luce”. (25 set – red)

 

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