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LA SECONDA VITA
DI PATRICK VIEIRA

LA SECONDA VITA <BR> DI  PATRICK VIEIRA

Il momento più bello è stato alzare la Coppa nel mondiale di casa del 98. Per il significato sportivo, ma soprattutto per il messaggio potente che quella vittoria ha rappresentato per tutto il Paese: la Francia è multietnica e questa diversità è una ricchezza. Patrick Viera arriva al Festival dello Sport di Trento da uomo compiuto – campione del mondo, leggenda dell’Arsenal, allenatore di nuova generazione – per raccontare una storia che non è fatta solo di trofei, ma di valori. Sul palco dell’Auditorium Santa Chiara parla con la calma e l’eleganza di chi ha già vissuto tanto, dentro e a bordo campo. «Preferisco parlare da allenatore», ammette, ma il racconto comincia dai suoi primi passi sul campo di gioco. In platea anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti. Si parte da lontano, dal Vieira bambino. “Avevo otto anni quando sono arrivato in Francia dal Senegal con mia madre e mio fratello. Lì ho scoperto il vero calcio, con strutture, allenamenti definiti e partite organizzate. All’inizio è stata dura, ma il talento non lo fermi: a Cannes, nel ’93, debutta tra i professionisti e, a soli 19 anni, è già capitano. «Ho avuto la fortuna di avere accanto giocatori esperti che mi hanno insegnato le cose importanti per la mia carriera”. Poi il salto nel sogno: nel 1995 il Milan di Maldini, Baresi, Weah, nel campionato italiano allora considerato il più bello del mondo. “Era come entrare in un negozio di giocattoli”, racconta con un sorriso che sembra farlo tornare bambino. “Mi cambiavo accanto a leggende che avevo solo visto in tv. Ho imparato tanto, soprattutto da Weah: mi trattava come un fratello minore e mi ha insegnato moltissimo. Anche se giocavo poco, capii che osservare e imparare era il modo giusto per crescere”. E in effetti Vieira cresce velocemente. Lo fa alla corte di Arsène Wenger, nel suo Arsenal perfetto tra classe e carattere. “Mi ha dato fiducia, mi ha detto di essere me stesso e di non aver paura di sbagliare. Da lui ho imparato l’importanza della personalità e della tattica».  Il ricordo più bello? I “Gunners” che sfidano il Manchester United e vincono il titolo a Old Trafford. “Vincere lì fu speciale. Quella rivalità tra noi e loro ha portato la Premier League a un livello superiore”. Poi il 1998, l’anno che cambia la storia: campione del mondo con la Francia. Vieira entra in finale contro il Brasile, serve l’assist per il 3-0 a Petit e scrive la parola “fine” su una serata da leggenda. “Eravamo una squadra di grande esperienza e determinazione: abbiamo puntato tutti insieme dritti all’obiettivo e avevamo il giocatore più forte al mondo, Zidane”.

 

Dopo l’Arsenal, il ritorno in Italia: la Juventus di Capello, poi l’Inter di Mancini e Mourinho. “Ho vinto tanto, ma ho imparato ancora di più. Capello mi ha insegnato la disciplina, Mancini la fiducia nei giocatori, Mou la preparazione totale: aveva sempre un piano A, B e C”. Uno sguardo triste va al 2006, la sconfitta in finale con l’Italia. Noi eravamo forse più forti, ma loro nel momento più importante, quello dei rigori, sono stati più lucidi e preparati mentalmente. Il dispiacere è anche per un grande compagno che ha lasciato il campo in anticipo, Zinedine Zidane. Quando appende gli scarpini al chiodo, Vieira sa già che il suo futuro è in panchina. “Al Manchester City ho iniziato dalle giovanili. Mi hanno dato fiducia, e lì ho capito che allenare mi piaceva davvero”. Dopo le esperienze in Francia e in Inghilterra oggi è alla guida del Genoa. “Siamo indietro con i punti, ma stiamo crescendo. L’importante è costruire, dare spazio ai giovani con talento, avere un progetto di valore su cui investire. E il progetto del Genoa lo è. A Genova sto molto bene, la città mi piace, con le sue strade e la sua gente, che ama il calcio in modo viscerale”. E sarebbe bello tornare a giocare un derby con la Samp. “La città se lo merita”, conclude Viera. Foto di Alessandro Eccel - Archivio Ufficio Stampa PAT. (11 ott – red)

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