Non può passare sotto silenzio il severo monito di Sergio Mattarella nei confronti dei bassi salari e non soltanto per il richiamo a quelle “tante famiglie sospinte sotto la soglia della povertà nonostante il lavoro di almeno uno dei componenti”. È da rimarcare soprattutto l’attenzione posta nei confronti del crescente divario fra la dirigenza ed i dipendenti delle imprese: nonostante i successi economici conseguiti robusti premi e significative prebende sono state distribuite a favore dei manager, che hanno ricevuto remunerazioni centinaia e talvolta migliaia di volte superiori a quelle dei lavoratori, mentre il salario di questi ultimi è da anni bloccato.
Sembra di risentire Adriano Olivetti secondo il quale nessun dirigente avrebbe dovuto guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso. Ed Olivetti si muoveva in un contesto nel quale il mitico Vittorio Valletta, che in quegli anni fece la fortuna della Fiat, aveva uno stipendio solo dodici volte superiore a quello di un operaio.
Ma – si dice – il problema centrale che condiziona l’entità delle retribuzioni è quello della produttività del lavoro; con una bassa produttività è pressoché naturale che i salari non crescano.
Ora, lasciamo per un momento da parte il rilievo secondo cui la retribuzione non può scendere sotto una determinata soglia perché deve poter garantire “un’esistenza libera e dignitosa”, come vuole l’art. 36 della Costituzione (opportunamente ricordato anche da Sergio Mattarella), e concentriamo l’attenzione sul tema della produttività.
Orbene Salvatore Rossi, (non certo un iscritto al sindacato di Landini), in un articolo apparso su La Stampa del 9 ottobre scorso, ha ricordato le varie componenti che condizionano l’efficienza produttiva e fra esse ha collocato, in misura preminente, la capacità di coloro che organizzano il lavoro (manager o imprenditori). Ed è proprio questa componente che in particolare in Italia costituisce – l’espressione è sua – una “zavorra sulla crescita e sulla produttività del lavoro”.
E dunque siamo di fronte ad un bel paradosso: i manager guadagnano centinaia o migliaia di volte più di un dipendente, ma, nel contempo, sono i maggiori responsabili dell’esistenza del lavoro improduttivo.
Di fronte a questa situazione cosa ha fatto il nostro governo?
Muovendo dal presupposto che considera “assistenzialismo” ogni intervento dall’alto sul salario sufficiente e dignitoso, nell’alternativa tra fissare autoritativamente un salario minimo legale o rinviare la sua determinazione ai contratti collettivi stipulati da sindacati veramente rappresentativi, ha optato per una soluzione che ha rinviato e di molto la soluzione del problema. Ha fatto approvare dal Parlamento una legge (legge 26 settembre 2025, n. 144) che ha delegato il governo stesso ad emanare una serie di decreti legislativi con lo scopo di assicurare trattamenti retributivi giusti ed equi, contrastare il lavoro sottopagato, stimolare il rinnovo dei contratti collettivi nazionali e contrastare fenomeni di dumping sociale. Il tutto ovviamente rinviando ogni decisione di almeno sei mesi (termine che nella storia non è mai stato rispettato).
Contemporaneamente però il ministro Giorgetti in Senato alla fine dello scorso mese di settembre ha invitato testualmente i datori di lavoro a “fare la loro parte” riconoscendo “anche loro ai lavoratori aumenti stipendiali”.
Come dire che la linea politica del governo si ispira al San Filippo Neri: “state buoni se potete” o, con i dovuti adattamenti, “fate i buoni se potete”.
* Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa
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