Nella sede di Palazzo Reale a Napoli, Sala Belvedere, da oggi al 25 gennaio, si tiene la mostra Totò e la sua Napoli che celebra il grande legame inscindibile tra l’artista e la sua città natale in occasione delle celebrazioni per i 2500 anni della fondazione di Napoli. Proprio in virtù di questo forte legame si è scelto di ospitare nel capoluogo campano questa mostra che omaggia uno dei suoi figli più illustri e simbolo universale di napoletanità e genialità comica, come prima tappa di un progetto che proseguirà a New York in primavera, proseguendo idealmente quel ponte culturale tra Napoli e il mondo che l’attore ha sempre rappresentato.
La mostra è promossa dal Comitato Nazionale Neapolis 2500 con il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Palazzo Reale di Napoli (ministero della Cultura), con la partecipazione degli eredi di Totò, con la collaborazione di Rai Teche e Archivio Storico Luce. In esposizione documenti originali, manufatti, ricordi, fotografie, filmati, costumi, installazioni mediali, ricostruzioni scenografiche, manifesti e locandine, giornali, testimonianze attraverso sezioni tematiche che ripercorrono la vita e la carriera dell’artista: Le origini, Il Rione Sanità, Il teatro, Le canzoni, Il cinema, Le poesie, Un maestro insostituibile, Totò e le bellezze della sua Napoli, Il saluto della sua Napoli. Spazio anche per i focus su Il Principe di Bisanzio e Gli amori di Totò. Un momento particolarmente emozionante dell’esposizione è l’ascolto dell’orazione funebre tenuta il 17 aprile 1967 da un Nino Taranto che non riesce a trattenere il pianto in piazza del Carmine davanti a centomila persone in lacrime. Il progetto - a cura di Alessandro Nicosia e Marino Niola e prodotto da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare – si propone di far affiorare quel legame tra Antonio de Curtis e la città dove si è formato il suo sguardo, affinato il suo linguaggio comico e costruito quel volto inconfondibile ma provvisorio, pronto a cambiare fattezze, come ogni maschera che si rispetti. Come emerge dall’esposizione, è impossibile parlare di Totò senza parlare di Napoli, la grande sorgente della sua attorialità ma anche della sua personalità. Della sua capacità di essere uno, nessuno e centomila. Di fatto Totò – come sostiene Marino Niola – “riassume le mille identità di una Napoli che diventa teatro universale, grande metafora della condizione umana. La città lo ha amato moltissimo e incondizionatamente perché ciascun napoletano si è riconosciuto in una delle mille sfaccettature di questa maschera interclassista. Personaggio e persona nel senso letterale del termine che significa appunto maschera. In effetti Totò e la sua Napoli vuole mostrare come Partenope ha modellato Totò e come Totò ha rimodellato Partenope, in tutta la sua miseria e nobiltà, facendone un simbolo che rappresenta tutti coloro che in ogni paese del mondo si sentono vesuviani”. La faccia di Totò era un qui pro quo. Come ogni maschera che si rispetti. La sua asimmetria, da virgola fuori posto, gli dava quell’aria stralunata, da burattino cubista. “Dicono che ho la faccia triste. Non ce l’ho triste. Ce l’ho storta perché mi sono rotto il naso”. Lo ripeteva spesso per prendere le distanze da quelli che facevano troppa filosofia sulla sua comicità. A chi lo considerava un cugino di Pulcinella o un nipote di Arlecchino, lui rispondeva con un’alzata di spalle che voleva dire “Ma mi faccia il piacere!”
Così ogni volta il principe de Curtis si nascondeva dietro il personaggio che lui era e non era, tanto che parlava di sé in terza persona. “Totò è un buffone serissimo. Incontrandomi per la prima volta mi disse che avevo proprio la faccia che serviva a lui”. “Uno snobismo plebeo e insieme una sprezzatura aristocratica – dice il curatore – come quella dei grandi attori della Commedia dell’Arte che si facevano ritrarre con la maschera in mano e mai sul volto, per sottolineare quell’impercettibile abisso che li separa. Per far capire che il personaggio non è la persona, ma il suo doppio. E in questo, Totò era la maschera perfetta di Napoli, una città-mondo che è facile riconoscere ma che è difficile conoscere”. Popolata com’è di marionette stralunate, di parole in libertà, di caratteristi h24, di personaggi in cerca di autore “ricchi di guai, di beffe subite, di appetiti arretrati”. Che lui ha trasformato in una umanissima metafora che fa di Partenope un luogo dell’anima e proietta Napoli oltre Napoli. Accompagna la mostra un catalogo pubblicato da Gangemi Editore, un volume che raccoglie storia, immagini e un ricco repertorio di straordinarie testimonianze, offrendo una profonda comprensione del suo spirito eclettico in cui molti giovani si ritrovano condividendo la sua voglia di libertà.
“Da oltre dieci anni ho l’opportunità di portare avanti la memoria di mio Nonno, Antonio de Curtis di Bisanzio in arte Totò, ed è a mia madre, Liliana de Curtis, che devo questo mio percorso nel continuare sulla scia da lei iniziata negli anni Ottanta, quella di mantenere viva la sua memoria contribuendo a preservare l’inestimabile patrimonio artistico e umano alle future generazioni” le parole di Elena Anticoli de Curtis. “Come nipote di Totò, non posso che essere fiera e orgogliosa di questo ennesimo omaggio alla sua figura immensa e intramontabile, con questa mostra Totò e la sua Napoli, che accompagna i visitatori tra le pieghe del suo particolare rapporto e legame con Napoli. E in totale adesione con quanto viene sentito e condiviso dal popolo napoletano non siamo fuori pista nell’affermare che Totò è Napoli e Napoli è Totò. “Io sono parte napoletano e parte nopèo”, diceva Totò. Doppiamente cittadino, doppiamente napoletano, mio Nonno viveva la dualità che da sempre accompagna e contraddistingue la storia di questa millenaria città, Napoli. Mio Nonno nasce nel cuore del quartiere Vergini-Sanità, in quella via che porta il nome di Santa Maria Antesaecula, definizione che porta in sé l’idea di un’origine che supera il tempo, antica e labirintica strada che quando la percorsi all’età di sedici anni accompagnando mamma tra una folla in visibilio mi fece prendere coscienza che Nonno non era un personaggio qualunque. E raccontarlo, spiegarlo, sarebbe un percorso fatto di sovrapposizioni, stratificazioni, intersecazioni e congiunzioni tra vita privata e vita artistica, pensiero e follia, consuetudine e sovversione. A distanza di 58 anni dalla sua morte continua a “essere” presente, e questa presenza elegge Napoli a residenza dell’anima, a luogo metafisico dove il mito e l’umano si fondono, vivendo nei cuori e nel quotidiano dei napoletani, non solo per un diritto topografico o anagrafico. Totò, mio Nonno, viene ancora oggi vissuto come uno di famiglia, con il senso di un’appartenenza, quasi parentale, e in parte lo è. Ma è un rapporto che va al di là degli schemi… Mio Nonno non solo è nato a Napoli, ma è anche nato da una storia millenaria che nei primi anni della sua vita ha respirato, assorbito, formato, e a volte segnato. Infine, lo ha trasformato nel genio che tutti conosciamo. C’è un senso dell’essere napoletano che è un modo di esistere, un farsi abitare dalla città più che abitarla, nel suo canto e nel suo grido, nel rapporto duale di luci e ombre, e tenerla nelle vene è come un privilegio. Il rapporto di Nonno con Napoli mi fa pensare alla duplice idea che ne traggono quasi tutti, tra l’essere Totò e l’aristocratico principe Antonio de Curtis, sintesi ed espressione di un dualismo sempre presente anche nella lettura della città come della vita, dove abbiamo un sotto e un sopra, miseria e nobiltà, bene e male, vita e morte, uomini e caporali… Se Napoli è una città mondo, dove lo “schema” è per secolare attribuzione un ambito e non un perimetro o una cornice, dove la forza creativa di un’attitudine alla sopravvivenza, declinata nell’arte di arrangiarsi, è elemento costituente di un modo di vedere e inventarsi la vita, allora è possibile intuire come mio Nonno nell’arte e nella vita ha saputo incarnare l’anima e la grandezza di un popolo. Ed è qui che si dipana il mito, che si intreccia realtà e leggenda. Ha rappresentato la fame con grande dignità, tutti ricordano la scena di Miseria e Nobiltà mentre salta su un tavolo imbandito per mettersi delle manciate di pastasciutta in tasca… Tutta la storia della grande comicità cinematografica è la storia di gesti esagerati che incarnano sentimenti reali, riconoscibili da tutti, ultimi e primi. Egli aveva una capacità inesauribile di spiattellare l’ipocrisia implicita nel ventaglio dei comportamenti sociali, adoperando una ricorrente messa in crisi di ogni norma, dell’autorità e della regola, assumendo quasi i contorni di una funambolica e fantasiosa forma di vita giunta sulla terra con la missione di destrutturare i saperi costituiti… Napoli è stata la sua tavolozza, la sua ispirazione interiore e artistica, il suo duale discernimento con cui ha dipinto alcune delle pagine più belle del panorama artistico teatrale e cinematografico italiano ed europeo. Un uomo che attraversando la notte della vita, ha saputo essere il sole di un palcoscenico dove forza e fragilità danzavano incessantemente tra la pelle e il costume di scena.
Accompagnano la mostra frasi significative del grande artista: “Il dialetto napoletano non è un dialetto è una lingua più lingua della lingua italiana che deriva dal dialetto fiorentino. La lingua napoletana deriva da altre lingue, il dialetto nemmeno l’ombra. E poi basta pensare a Dante Alighieri. Il povero Dante aveva bisogno di scegliere un dialetto per farlo diventare lingua e non potendo scegliere il napoletano che era già lingua, si arrangiò con il fiorentino”. “Non c’è nessuna discrepanza tra la mia professione, che adoro, e il fatto che io componga canzoni e butti giù qualche verso pieno di malinconia. Sono napoletano e i napoletani sono bravissimi nel passare dal riso al pianto”. “Resto un napoletano con tutti i pregi e i difetti del napoletano. Ogni quindici venti giorni torno a Napoli per un brevissimo soggiorno; non posso stare più a lungo lontano dalla mia città; la gente di là mi dà il calore della vita. E ogni volta mi commuovo come un bambino”. Saggio? No, io sono napoletano”. “Sono veramente fiero di essere meridionale. Almeno due volte all’anno ho bisogno di rivedere Napoli, di sentirne l’odore. La città è magnifica, ma lo è soprattutto la gente. A Napoli esistono due categorie di persone: quelle perbene e quelle… no. I mascalzoni a Napoli non esistono”. “Noi a Napoli campiamo solo di miracoli!”. Alla mia età andare sulla Luna? Ma siamo pazzi! E poi, in questo periodo io sono abituato ad andare a Capri”. “Ogni volta che devo parlare di questa mia meravigliosa città divento napolantico. Vuol dire che mi immalinconisco, divento sentimentale”. E sugli inizi: “Eravamo una “chiorma” di amici, cioè un gruppetto compatto, tutti principianti pieni di speranze, tutti uomini che poi si sono piazzati, io, Eduardo e Peppino de Filippo, Armando Fragna e Cesarino Bixio. Facevamo le “recite staccate” nei teatrini di Aversa, Torre del Greco, Castellammare. La “recita staccata” era una specie di week-end teatrale, due rappresentazioni, sabato e domenica: chi faceva la prosa, chi il varietà, chi suonava in orchestra”. “Non sono uno scrittore, sono un napoletano. Tutti i napoletani la poesia ce l’hanno un po' dentro, tutti i napoletani in un modo o nell’altro sono poeti”. Foto dall'Archivio di Parisio Onlus (31 ott - red)
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