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FAMIGLIA, A TRENTO UN FESTIVAL
DI IDEE CONTRO LE CULLE VUOTE

FAMIGLIA, A TRENTO UN FESTIVAL <BR> DI IDEE CONTRO LE CULLE VUOTE

Di fronte a un Paese che invecchia e a una natalità ai minimi storici, la sfida per il futuro è rendere possibile, per le giovani generazioni, realizzare il proprio desiderio di genitorialità. È il quadro disegnato nell’ambito del Festival della Famiglia che si è chiuso a Trento con preziose riflessioni e proposte su un tema ormai emergenziale emerse nei corsi dei diversi dibattiti tenutosi nello scenario del Castello del Buonconsiglio. Nel panel “Fare figli oggi tra valori, aspettative e vincoli” è stata analizzata la situazione italiana con due contesti europei molto differenti: la Scozia, che negli ultimi anni ha investito in modo significativo nel sostegno alle famiglie, e la Francia, tradizionalmente considerata un modello di riferimento per le politiche sulla natalità, ma che a sua volta sta iniziando a registrare un calo della fecondità.
Alessandro Rosina (Università Cattolica di Milano) ha sottolineato come l’Italia registri un livello di natalità molto basso da oltre quarant’anni, con un progressivo ridimensionamento della popolazione potenzialmente genitoriale. Una tendenza che, se non invertita, avrà conseguenze significative sul sistema sociale, economico e previdenziale del Paese. Sottolineando la grave incapacità della politica di capire le scelte da fare, Rosina ha richiamato la necessità di “ripensare il modello di sviluppo”, superando un approccio solo quantitativo ed investendo in capitale umano ed in politiche che permettano ai giovani di progettare il proprio futuro, mettendo al centro i progetti di vita ed il benessere delle nuove generazioni. Senza questo cambio di passo – ha ricordato – l’Italia rischia di non riuscire a cogliere le sfide socio-economiche del prossimo futuro.

Agnese Vitali (Università di Trento) ha evidenziato come il calo della natalità sia un processo di lungo periodo, i cui effetti si avvertono con anni di distanza (meno studenti, chiusura di scuole, riduzione della popolazione attiva e squilibrio generazionale). Vitali ha individuato nella difficoltà dei giovani a raggiungere autonomia economica e abitativa una delle criticità principali del nostro Paese, dove un giovane di età tra i 25 ed i 35 anni vive ancora con i genitori. Un quadro che rende più difficile compiere scelte familiari in modo libero e consapevole, rispetto a contesti europei dove l’ingresso nella vita adulta avviene più precocemente. È qui che si inserisce la questione del divario crescente tra desideri di genitorialità e possibilità concrete di realizzarli.

Uno sguardo al modello francese è stato proposto da Giulia Ferrari (INED, Parigi): oltralpe si investe il 2% del PIL, il doppio rispetto all’Italia, in misure a sostegno della famiglia e della conciliazione vita-lavoro (l’Italia l‘1%), con strumenti universali e strutturali nel tempo. Questo approccio ha consentito per anni di mantenere tassi di fecondità più elevati rispetto alla media europea e di ridurre le differenze tra famiglie con e senza figli. Al centro delle politiche – ha spiegato Ferrari – non solo trasferimenti economici, ma servizi diffusi e universali: sostegno all’accesso alla casa, congedi regolati, copertura dei servizi educativi e misure per favorire un ingresso più stabile dei giovani nel mondo del lavoro. Elementi, ha contribuiscono ad abbattere l’incertezza e ridurre la precarietà percepita e lo scarto di opportunità tra chi ha figli e chi non ne ha. Francesca Fiori (Università di Strathclyde, Glasgow) ha raccontato il caso scozzese, che a partire dal 2019 ha costituto una task force governativa sul tema della denatalità, avviando un percorso strategico e trasversale alle politiche sociali, volto a garantire pari condizioni di partenza a tutti i bambini, contrastare le disuguaglianze economiche e sostenere le famiglie nel lungo periodo. Pur con tassi di fecondità in calo – 1,25 figli per donna, con punte ancora più basse nelle grandi aree urbane – la Scozia ha introdotto misure mirate nel welfare, nella prima infanzia e nel sostegno ai nuclei a basso reddito, con un approccio che guarda non solo alla natalità ma alla qualità della crescita sociale e demografica. Tra gli esempi citati: strumenti di supporto universale alle famiglie, 1500 ore di scuola dell’infanzia gratuita a partire dal terzo anno d’età dei figli, misure economiche aggiuntive rispetto al Regno Unito per sostenere le fasce a basso reddito.

Nel panel "Desiderio di futuro: percorsi verso una genitorialità possibile", Cinzia Castagnaro, ricercatrice senior dell’ISTAT, ha ricordato che “fino agli anni ’60 la natalità cresceva costantemente, grazie al saldo positivo tra nascite e decessi. Questo trend è proseguito fino al 2014, anche grazie all’immigrazione, ma da allora la popolazione ha iniziato a calare: l’Italia ha perso circa 1,5 milioni di abitanti, e nel 2024 il tasso di natalità è sceso a 1,18 figli per donna, superando in negativo il minimo storico. Il fenomeno delle 'culle vuote', con la perdita di circa 200.000 nati negli ultimi 16 anni, è riconducibile a vari fattori: un numero sempre più ridotto di donne in età fertile, tante che decidono di avere figli più tardi, e altre che scelgono di non averne, per ragioni legate alla salute, all’età o ai propri progetti di vita".

Arne Luehwink, direttore dell’Unità Operativa Ostetricia e Ginecologia – PMA di Arco, APSS, ha ricordato che la fertilità non è una condizione costante nel tempo: segue i suoi ritmi, spesso diversi da quelli dei progetti di vita. La capacità di concepire tende a ridursi già molti anni prima della menopausa, proprio mentre tante donne tra i 35 e i 44 anni stanno costruendo il loro futuro familiare. Per questo, sempre più coppie scelgono di rivolgersi alla procreazione medicalmente assistita, pur sapendo che i risultati non sono garantiti, soprattutto nelle età più avanzate. "La PMA offre maggiori possibilità quando l’età femminile è più giovane, perché i tempi della natura sono poco modificabili. La medicina può dare un sostegno importante, ma è fondamentale che ogni donna abbia accesso a informazioni chiare, così da compiere scelte davvero consapevoli per il proprio percorso", ha affermato.

Lucia Busatta, professoressa associata di Diritto costituzionale e pubblico – CIBIO, Università di Trento, ha presentato il ruolo della legge davanti allo scenario presentato. “La riproduzione medica è una pratica sanitaria e pertanto deve essere regolamentata. La legge è arrivata nel 2004, relativamente tardi anche rispetto al contesto, purtroppo con una soluzione non equilibrata, dal momento che è stata scritta in una maniera troppo rigida”.

 Elisabetta Cenci, direttrice dell’Ufficio età evolutiva, genitorialità e centro per l’infanzia – Servizio politiche sociali della Provincia autonoma di Trento, ha parlato della genitorialità adottiva, basata sul legame affettivo e non biologico: “L’adozione è un fenomeno in netto calo, sia per fattori esterni, sia per la complessità delle procedure. Le coppie che decidono di aprirsi a questo percorso, infatti, devono avere dei requisisti per legge, legati all’età, alla stabilità della relazione e alla valutazione sulla idoneità ad accogliere, mantenere ed educare i figli. A livello statistico le coppie sono relativamente mature, hanno un livello di istruzione medio-alto, e una posizione lavorativa generalmente stabile". C’è però un’altra caratteristica: il percorso adottivo segue spesso anni di tentativi di PMA, con coppie che portano con sé l’esperienza di un progetto familiare non realizzato.  

Da figure marginali nella cura dei figli, molti padri stanno ormai avendo - per scelta o per necessità - un ruolo sempre più presente nella quotidianità della casa e dei figli. Cresce il numero di padri che usufruiscono del congedo a loro dedicato e si alza la voce di quanti rivendicano il diritto di passare del tempo con i figli. Tuttavia, l’impatto della genitorialità sulle carriere e le retribuzioni rimane penalizzante per le madri rispetto ai padri e fa pensare che ci sia bisogno di una rivoluzione del paradigma culturale con cui si pensa la genitorialità. La Spagna, su questo, può essere un esempio da seguire. Se ne parlato nel panel "I padri protagonisti del quotidiano" che ha visto in apertura il vicepresidente della Provincia di Trento Achille Spinelli sottolineare che “il ruolo dei padri sta diventando centrale per il Trentino, per il nostro Paese e per il mondo intero. È tempo che la famiglia sia considerata in una prospettiva più ampia, in cui il carico e la cura dei figli siano realmente condivisi tra entrambi i genitori. Quello di oggi è inoltre un tema che tocca da vicino anche l’economia, perché il ruolo dei padri incide in modo significativo sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. La Provincia intende coinvolgere su questo fronte le categorie economiche, per favorire una gestione efficace del congedo parentale nelle aziende e contribuire a superare lo stigma sociale del 'mammo', che è scorretto e riduttivo. Al contrario, deve essere riconosciuto come un’opportunità di valore sociale per tutta la comunità".

 

Maria De Paola, professoressa di Economia Politica, Università della Calabria e dirigente INPS ha quindi aggiunto: “In Italia la nascita del primo figlio avviene con un’età media di 36 anni per i padri e di 32 per le madri. Il principale vincolo alla scelta di fare famiglia resta la stabilità lavorativa. Gli uomini, in genere, possono contare su carriere che proseguono in modo lineare anche dopo la nascita dei figli, mentre per molte donne si registrano ripercussioni significative, spesso con la richiesta di part-time o persino con l’abbandono del lavoro. È così che si alimenta il gender gap salariale tra uomini e donne. Alla cura dei figli si aggiunge poi quella degli anziani. In Italia il congedo di paternità obbligatorio, pari a 10 giorni, viene utilizzato nel 64% dei casi, mentre il congedo parentale da parte degli uomini resta inferiore all’1%”.

 

Stefania Terlizzi, dirigente generale dell’Agenzia del Lavoro, ha commentato: “In Trentino il tasso di partecipazione al lavoro mostra ancora un divario del 10% tra uomini e donne. Le donne lavorano part-time nel 38% dei casi, contro il 5% degli uomini. È un paradigma che deve cambiare: il carico di cura non può ricadere solo sulle donne che, fino ai 30 anni, lavorano full time per il 79%, ma che con la maternità vedono spesso modificarsi la propria condizione lavorativa. In Trentino, anche grazie al sistema di welfare, negli ultimi cinque anni il tasso di dimissioni è sceso dal 18% al 3%. Resta però un nodo cruciale: la resistenza dei padri a utilizzare i congedi parentali per timore di penalizzare la propria carriera. In provincia di Trento, infatti, su 280.000 giornate di congedo, 230.000 sono richieste dalle mamme.”

 

Marc Grau-Grau, professore di Politiche Sociali e Familiari e direttore dell'Istituto di Studi Avanzati sulla Famiglia, Università di Barcellona, ha evidenziato che la paternità è in transizione e occorre introdurre un cambio di paradigma culturale: “In Spagna è stato fatto molto e i padri che lavorano ricevono 16 settimane di congedo contro le 10 giornate in Italia. Occorre investire maggiormente per invertire la rotta e cercare di alzare l’occupazione femminile”.

Alessandra Minello, ricercatrice in Demografia, Università di Padova, autrice di "Senza figli" e “Genitori alla pari”, ha esordito con una domanda: “Perché il 40% dei padri non utilizza un congedo retribuito al 100%? Le ragioni sono soprattutto culturali: spesso permane uno stigma, una scarsa conoscenza delle opportunità disponibili oppure una difficoltà a riconoscersi pienamente in questo ruolo di cura. La parola 'mammo', ad esempio, tende a svilire la figura paterna ed è ancora un deterrente nell’utilizzo dei congedi. Finché non ci saranno scelte istituzionali in grado di orientare il cambiamento culturale, la situazione faticherà a evolvere. Oggi i padri sono sempre più presenti, contribuiscono alla vita domestica e alla cura dei figli, ma non ancora in misura paritaria rispetto alle donne. Dobbiamo costruire un Paese capace di favorire questo cambiamento culturale e ampliare le opportunità di accesso ai servizi di cura — oltre ai nidi, anche il post-scuola, le attività estive e altre proposte che possano sostenere davvero le famiglie”. (23 nov – red)

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