Un’opportunità per approfondire l’arte di Carla Accardi: dal 13 dicembre al 28 marzo 2026 è in programma, alla Galleria dello Scudo a Verona, la mostra dedicata a una selezione di opere di Carla Accardi eseguite tra il 1964 e il 1965. I dipinti, ora riuniti per la prima volta a documentare un nucleo ben definito, sono caratterizzati dall’uso di pigmenti oro e argento, una scelta con cui l’artista declina in termini del tutto inediti una personale riflessione sul rapporto fra segno, luce e spazio pittorico. La rassegna, dal titolo “carlaaccardi oroargento - dipinti 1964-1965”, in collaborazione con l’Archivio Accardi Sanfilippo, riunisce tele di grandi dimensioni provenienti dalla collezione dell’artista, alcune già esposte in Italia e all’estero negli Anni ’60, che testimoniano di una fase creativa tra le più intense del suo percorso. Del 1964, infatti, è l’invito alla XXXII Biennale di Venezia con una sala personale. Nel testo in catalogo, Carla Lonzi sottolinea come Accardi sia passata “attraverso l’informale senza possibilità di identificarvisi, ma avvertendone la presenza come dato ovvio e preesistente”. L’artista sceglie per la prima volta di ricorrere a questi pigmenti per spostare con decisione la sua pittura verso una nuova dimensione di luminosità, che coinvolge lo spazio oltre i confini della tela, in un dialogo che, negli stessi anni, la porta a concepire le prime radicali sperimentazioni ambientali con il sicofoil. La serie di quadri del 1964-1965 ora riuniti a Verona rappresenta una delle tappe più enigmatiche e sofisticate di una particolare sperimentazione: l’oro e l’argento diventano veicoli di luce, materiali che dialogano con lo spazio circostante; l’immagine non è confinata all’interno del telaio ma agisce per inversione, apertura, riverbero. I dipinti di questo periodo riconfermano la tensione dell'artista verso una nuova “densità luminosa”: il segno si fa essenziale, ridotto ma, al tempo stesso, potente nella sua capacità di modulare la percezione in rapporto all’osservatore e alle condizioni di visione. Sarà Accardi stessa, in un’intervista su “Flash Art” di ottobre-novembre 1989, a offrire la chiave utile per comprendere la genesi di questi quadri: “Ricordo che nell’estate del ’64, dopo la mia partecipazione alla Biennale, ho cominciato a usare il colore fluorescente su tela. Il colore fluorescente esprimeva la mia ricerca di una luce sempre maggiore, perché la fluorescenza di questo colore sembra illuminata da un raggio di sole, mentre il colore normale, anche se è un rosso cadmio, sembra sempre un po’ ombrato. Il materiale trasparente, che poi ho usato, ho avuto occasione di utilizzarlo per una cosa che mi avevano chiesto. Così, la trasparenza e il colore fluorescente vengono tutti e due da quella mia scelta di radicalizzazione verso un cammino di “antipittura”; è sempre stato il mio motivo ispiratore... Ero passata da Ravenna e avevo visitato il Mausoleo di Galla Placidia”. L’esposizione veronese è corredata da una ricca serie di opere su carta. Un nucleo, anch’esso, del tutto coeso e unico, realizzato utilizzando i pigmenti oro e argento su carte colorate e mai presentato in pubblico nel suo insieme. In uno spazio ancora una volta risolto in bicromia, Accardi disegna una serie di “matasse”, come lei stessa le chiama, in cui il segno si agita libero e si avviluppa in sequenze continue dall’andamento circolare, mosse verso il centro del foglio di carta o dilatate fino ai suoi limiti estremi. Opere in cui ritorna quella che Germano Celant nel 1999 definisce “la danza dei riflessi”, che “spinge i colori quanto le superfici a fluttuare, a riverberare una luce e una mobilità che sono continue intercomunicazioni tra le polarità dell’arte e dell’ambiente”. La Galleria dello Scudo pubblica un catalogo in italiano e inglese con testi di Bruno Corà, Paola Bonani, Daniela Lancioni, con un ricco apparato iconografico. (gci)
A ROMA IL DIALOGO TRA SCULTURE E CREAZIONI DELLA MAISON CARTIER
Un dialogo evocativo tra alcune delle creazioni più prestigiose della Maison Cartier e le sculture antiche della collezione di Palazzo Nuovo. Dallo scorso 14 novembre fino al 15 marzo 2026, il Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini a Roma ospiterà la mostra "Cartier e il Mito ai Musei Capitolini". Questa è la prima volta che il Palazzo Nuovo ospita una mostra temporanea. Le creazioni della Maison Cartier, per lo più provenienti dall’heritage Cartier Collection, saranno in “comunicazione” con le sculture in marmo della collezione del cardinale Alessandro Albani – nucleo originario della collezione museale di Palazzo Nuovo – e con una selezione di preziosi reperti antichi provenienti dalla Sovrintendenza Capitolina, da prestigiose istituzioni italiane e internazionali e da collezioni private. La mostra, curata dalla storica del gioiello Bianca Cappello, dall’archeologo Stéphane Verger, dal Sovrintendente Capitolino Claudio Parisi Presicce e promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, è organizzata in collaborazione con la Maison Cartier e con il supporto di Zètema Progetto Cultura. Il progetto di allestimento è a cura di Sylvain Roca, con uno straordinario contributo creativo del maestro Dante Ferretti. Dalla metà del XIX secolo ad oggi, Cartier ha studiato, tratto ispirazione e reinterpretato il repertorio estetico e simbolico dell’antica Grecia e di Roma, trasformando motivi millenari in gioielli dal carattere unico e moderno. Cartier e il mito ai Musei Capitolini è un viaggio affascinante alla scoperta dell’universo estetico e formale della Maison Cartier, in continuo dialogo con l’eccezionale collezione di sculture antiche dei Musei Capitolini. La mostra esplora il modo in cui l’antichità classica ha mutevolmente ispirato le sue creazioni più iconiche ricostruendo atmosfere intellettuali e culturali, ed evocando l’evoluzione dell’immaginario legato alla Grecia e a Roma nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Particolare attenzione è posta sul profondo legame tra Cartier e l’Italia, specialmente Roma. Le collezioni permanenti del Palazzo Nuovo in Campidoglio – l’originario Museo Capitolino istituito nel dicembre del 1733 da Clemente XII Corsini – si compongono in modo quasi esclusivo di sculture in marmo, in gran parte acquisite dalla collezione del cardinale Alessandro Albani. Molte di queste sculture antiche hanno costituito modelli imprescindibili per la formazione del linguaggio artistico europeo. La mostra offre una prospettiva originale su un aspetto particolare e importante di questo tema: dell'uso del repertorio antico in gioielleria, dai “pastiches” dei grandi collezionisti e orafi del XIX secolo, come i Castellani a Roma, stile Neoclassico Garland, fino alle opere successive ispirate a Jean Cocteau nel secondo dopoguerra, arrivando infine alle creazioni odierne e a un nuovo approccio all’Antichità. L’esposizione mette in luce l’uso del repertorio classico greco-romano nelle creazioni Cartier e le trasformazioni della prima metà del Novecento, quando maturò una nuova concezione dell’antichità classica. Una sezione è dedicata alle tecniche e ai processi di lavorazione dei gioielli, con riferimenti all’età romana. La mostra esplora inoltre le ispirazioni mitologiche che hanno nutrito l’immaginario Cartier dall’inizio del XX secolo, confrontando le creazioni della Maison con le antiche divinità di Palazzo Nuovo – Afrodite e Dioniso, Apollo ed Eracle, Zeus e Demetra – e invitando i visitatori a riscoprire all’interno della collezione permanente i modelli antichi che le hanno ispirate. La mostra, concepita come un’esperienza immersiva arricchita da elementi audiovisivi, si caratterizza per le installazioni olfattive create dalla profumiera della Maison Cartier, Mathilde Laurent, e per l’esposizione di pietre dure provenienti dall’atelier di glittica di Cartier che incarnano le divinità e i miti esposti. (gci)
GORIZIA DIVENTA UN HUB FOTOGRAFICO D’ECCELLENZA CON TRE GRANDI ESPOSIZIONI
Nel 2025, anno di GO! 2025 (Nova Gorica–Gorizia Capitale europea della Cultura), Gorizia si presenta come uno dei principali hub fotografici internazionali, grazie a un progetto espositivo unico per ampiezza e qualità. Tre grandi mostre – “Franco Basaglia, dove gli occhi non arrivavano”, “Back to Peace? La guerra vista dai grandi fotografi Magnum” e “Tre sguardi. Racconti fotografici inediti per GO! 2025” – articolate tra lo Spazio espositivo Santa Chiara, Palazzo Attems Petzenstein e la rinnovata Casa Morassi, costruiscono un percorso unitario dedicato alla memoria, alla storia e al volto contemporaneo del territorio di confine. Con oltre 20 autori internazionali coinvolti e più di 300 immagini, affiancate da videoinstallazioni, materiali d’archivio e reportage inediti, le tre mostre offrono una lettura corale e potente del Novecento e del presente: dalla rivoluzione basagliana alla guerra e alla pace raccontate dai fotografi Magnum, fino a nuove interpretazioni del confine e delle sue identità. Il viaggio prende avvio al Museo di Santa Chiara il 29 novembre (fino al 3 maggio) con “Franco Basaglia, dove gli occhi non arrivavano”, progetto curato da Marco Minuz e promosso dal Comune di Gorizia, con il contributo del ministero della Cultura (MiC) e della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia per il tramite della direzione centrale Cultura e Sport, ed è organizzato da Suazes. La mostra vuole ricordare la figura di Franco Basaglia e del suo rapporto con Gorizia e ricostruisce la stagione in cui la città divenne un laboratorio internazionale di trasformazione della salute mentale. Attraverso gli sguardi di Gianni Berengo Gardin (recentemente scomparso e omaggiato in quest’occasione), Raymond Depardon e Ferdinando Scianna, il percorso riporta alla luce il momento storico in cui la denuncia delle condizioni manicomiali e la riflessione sulla dignità della persona portarono alla rivoluzione culturale che avrebbe condotto alla legge 180 del 1978. Le immagini di Berengo Gardin, realizzate con Carla Cerati e confluite nel volume “Morire di classe”, mostrano la durezza e la disumanità delle condizioni dei manicomi italiani e diventano uno dei motori del cambiamento culturale che portò alla legge 180 del 1978. Depardon, con il suo sguardo discreto ma implacabile, documenta i corridoi, i volti e gli spazi sospesi dell’ospedale di San Clemente, mentre Scianna introduce un elemento poetico e umano, catturando la fragilità e la dignità dei pazienti che Basaglia cercò di restituire al mondo. A completare il percorso, circa ottanta fotografie, tre videointerviste realizzate per l’occasione e il film “Il Volo” di Silvano Agosti, che racconta l’esperienza simbolica del “volo” dei pazienti, metafora potente di una liberazione possibile. Una mostra che volutamente, anche nella scelta delle fotografie d’autore individuate, vuole non solo raccontare l’esperienza di Basaglia da un punto di vista professionale, ma anche suggerire la visionarietà che la animava. Il racconto prosegue nella cornice nobile di Palazzo Attems Petzenstein, dove dal 20 dicembre al 3 maggio 2026 prende forma “Back to Peace? La guerra vista dai grandi fotografi Magnum”, organizzata da ERPAC FVG e prodotta da Suazes in collaborazione con Magnum Photos, con la curatela di Andrea Holzherr e Marco Minuz. Si tratta di una delle più vaste ricognizioni recenti sulla rappresentazione della guerra nel Novecento e sulla costruzione della pace, in esclusiva per l’Italia. Oltre duecento fotografie di autori membri della prestigiosa agenzia Magnum ripercorrono i momenti cruciali del secolo: le immagini di Robert Capa durante lo sbarco in Normandia; il lavoro di George Roger sulla liberazione dei campi di concentramento, messo in dialogo con i disegni di Zoran Music realizzati a Dachau; il reportage di Wayne Miller sulle conseguenze delle bombe atomiche in Giappone; e Le Retour di Henri Cartier-Bresson, dedicato al ritorno dei prigionieri di guerra in Francia. Seguono le fotografie di Werner Bischof che raccontano un’Europa ferita ma resiliente, attraversata dalla Grecia alla Finlandia, e il progetto UNICEF di David Seymour, dedicato ai bambini vittime dei conflitti. A questi si aggiungono le immagini di Herbert List, che documentano la fragilità del dopoguerra e la ricostruzione della gioventù europea, fino alla sezione finale sulla costruzione del Muro di Berlino, simbolo di nuove tensioni e nuove frontiere. Oltre ai già citati, saranno presenti contributi di: Eve Arnold, Cornel Capa, Erica Hartmann, Burt Glinn, René Burri, Leonard Freed e Thomas Hoepker. Installazioni video e paesaggi sonori amplificano la dimensione emotiva della mostra, mettendo il visitatore al centro di un percorso che attraversa distruzione, dolore, speranza e rinascita. Allestire questa mostra proprio a Gorizia, città che ha vissuto sulla propria pelle le fratture del Novecento, significa riaffermare il ruolo simbolico del confine come luogo di passaggio, di riflessione e di memoria condivisa. Infine, il percorso si conclude in Borgo Castello nella rinnovata Casa Morassi, che dallo scorso 25 ottobre al 18 gennaio 2026 accoglie “Tre sguardi. Racconti fotografici inediti per GO!2025”, progetto ideato e curato da Alvise Rampini e Michele Smargiassi e promosso dal CRAF. Qui tre maestri della fotografia internazionale – Steve McCurry, Alex Majoli e Meta Krese – sono stati invitati a misurarsi con Gorizia, Nova Gorica e il tema del confine, realizzando tre reportage completamente inediti. McCurry, attraverso una serie di ritratti intensi, dà voce ai testimoni della storia isontina, ricostruita grazie al lavoro con il giornalista Roberto Covaz. Majoli attraversa il territorio come un regista, seguendo il corso dell’Isonzo, trasformando paesaggi, feste popolari, incendi sul Carso e scene di quotidianità in immagini che sembrano provenire da un set cinematografico. Krese sceglie invece un approccio più intimo, dedicandosi alle famiglie che vivono quotidianamente un’identità transfrontaliera, componendo assemblage visivi in cui l’interno domestico e la dimensione urbana dialogano come in un moderno polittico. Il risultato è una narrazione corale che restituisce l’essenza di un territorio in trasformazione, dove i confini non dividono ma si intrecciano con le storie personali e collettive. Considerate nel loro insieme, queste tre mostre costruiscono un’unica, ampia narrazione visiva che attraversa la storia europea e la radica nella complessità del territorio isontino. “Franco Basaglia, dove gli occhi non arrivavano” restituisce la voce alla rivoluzione basagliana; “Back to Peace? La guerra vista dai grandi fotografi Magnum” racconta il secolo della guerra e della ricostruzione; “Tre sguardi. Racconti fotografici inediti per GO!2025” interpreta il presente di una città di confine che oggi guarda al futuro con una nuova identità condivisa. È un viaggio che solo una Capitale Europea della Cultura può offrire: un invito a guardare, a ricordare, a comprendere e soprattutto a immaginare un’Europa più consapevole del proprio passato e più aperta al dialogo. (gci)
SIENA, “CUCÙ-TETÈ”: ARMANDO TESTA A PALAZZO DELLE PAPESSE
“Guardi un lavoro di Armando Testa e credi di averlo compreso, ma subito ti accorgi che c’è dell’altro: una piega inattesa, un senso che si ribalta. È la cifra della sua opera: una rivelazione che diventa meraviglia”. Così Gemma De Angelis Testa spiega l’espressione giocosa che accompagna il titolo della mostra. Dallo scorso 21 novembre al 3 maggio 2026, il Palazzo delle Papesse di Siena ospita una grande retrospettiva dedicata ad Armando Testa (1917–1992), a cura di Valentino Catricalà e Gemma De Angelis Testa, prodotta da Opera Laboratori in collaborazione con Galleria Continua e Testa per Testa Srl, dal titolo “Armando Testa. Cucù-Tetè”. Come sottolinea Valentino Catricalà: “Scrivere su Armando Testa non è impresa facile. Quale altro personaggio fondamentale della cultura italiana può essere paragonato a lui? Cos’è Testa? Siamo sicuri che sia solamente un grande e geniale pubblicitario? Ecco, questo testo e questa mostra vogliono scardinare proprio tale impostazione”. La mostra riunisce circa duecento opere tra manifesti, dipinti, installazioni, sculture, fotografie, materiali audiovisivi, i segni preparatori e di ricerca, offrendo un ritratto a tutto tondo di chi fu non solo il più celebre pubblicitario italiano, ma anche artista, grafico e inventore di linguaggi visivi radicalmente nuovi. Un’attenzione particolare è riservata all’aspetto audiovisivo: in alcune sale chiave, televisori a tubo catodico riproducono caroselli e filmati d’epoca restituendo la forza multisensoriale di un linguaggio innovativo e immersivo. L’esposizione mette in luce come le intuizioni comunicative di Testa siano spesso nate da un processo creativo che partiva dall’arte per trasformarsi in linguaggio universale, capace di parlare a tutti. Testa ha reinventato la comunicazione visiva, trasformando il vedere in un’esperienza altamente coinvolgente. Non a caso, Gillo Dorfles lo definì un “visualizzatore globale”. Cuore concettuale del percorso è la “nicchia” situata al secondo piano, interamente ricoperta da oltre 400 disegni: un flusso ininterrotto di forme che restituisce visivamente il processo creativo di Testa, la sua inesauribile vena immaginifica. Un’altra installazione-chiave è allestita nello spazio del caveau, dove la celebre Lampadina Limone (1968) è esposta in un ambiente completamente buio, illuminata da un unico spot: qui l’opera diventa la metafora dell’intuizione geniale. Il percorso si apre al primo piano con una “comfort zone visiva”, che raccoglie alcune delle opere più iconiche: dal celebre manifesto Punt e Mes (1960), con le sue declinazioni pittoriche, ai manifesti fluorescenti del Gotto (1952) e Il brindisi dei due re (1949) realizzati per la Carpano, fino alle campagne per Borsalino e ai manifesti per le Olimpiadi di Roma del 1960. Seguono le sezioni dedicate al rapporto fra arte, industria e tecnologia, con manifesti e disegni preparatori rari (Profilo Italia, 1990; Grafica 3, 1976; Esso Hydroforming, 1955; Il mondo delle torri, 1990), che testimoniano quanto l’attività grafica e pubblicitaria di Testa fosse trasversale e capace di tradurre in immagini le trasformazioni industriali e tecnologiche del proprio tempo. A chiusura di questo nucleo, è esposta anche la copertina realizzata per il gruppo musicale PIL nel 1991, ispirata a un suo lavoro del 1974. La retrospettiva dedica poi ampio spazio alla pittura, primo linguaggio di Testa e luogo di libertà assoluta, indipendente dalla committenza, nel quale emergono rimandi all’astrattismo americano ed echi naturalistici. Sono inoltre esposti per la prima volta alcuni manifesti inediti che restituiscono la profondità artistica del suo linguaggio visivo. La mostra prosegue con l’universo narrativo di Caballero e Carmencita, presentato insieme a materiali audiovisivi originali su tubo catodico. Al secondo piano il visitatore è accolto da un’altra installazione, dedicata al Pianeta Papalla, qui ricostruito in scala per immergere il pubblico in uno dei mondi visionari che hanno contribuito a definire la genialità comunicativa di Testa. A seguire, la sala dedicata alla “carica degli elefanti” Pirelli (1954), uno dei suoi primi lavori, icona di potenza e magnetismo, come osservava già Germano Celant. La retrospettiva include inoltre una sala dedicata al corpo, esplorato attraverso media differenti – dalla pubblicità alla fotografia, fino alla scultura e alla pittura – e secondo molteplici declinazioni: dal riferimento al corpo sacro, evocato dal capo reclinato della croce, al corpo pubblicitario, mai mostrato integralmente per preservare quell’elemento di mistero che chiama lo spettatore all’immaginazione; fino al corpo pittorico, ridotto a una parte per il tutto: il dito. Questa ossessione, legata agli inizi di Testa in tipografia, introduce il focus successivo su numeri e lettere, senza dimenticare le due sale dedicate agli animali e agli esperimenti visivi sul cibo. La visita si conclude con il documentario Povero ma moderno (2009) di Pappi Corsicato, premiato alla 66ª Mostra del Cinema di Venezia (sezione Orizzonti – Premio Speciale F. Pasinetti). A corredo dell’esposizione, un volume edito da Sillabe raccoglie per la prima volta i testi di alcuni tra i maggiori studiosi che hanno scritto su Testa – da Gillo Dorfles a Germano Celant, passando per Jeffrey Deitch e Vincenzo De Bellis – insieme a testimonianze di artisti contemporanei quali Michelangelo Pistoletto, Paola Pivi, Grazia Toderi e Haim Steinbach, per citarne solo alcuni. “Dopo le grandi esposizioni dedicate a Julio Le Parc e Hugo Pratt – spiega Beppe Costa, presidente e amministratore delegato di Opera Laboratori - la retrospettiva su Armando Testa prosegue il percorso di valorizzazione del Palazzo delle Papesse come centro espositivo aperto alla contaminazione tra linguaggi, tra arte e comunicazione. Testa è un simbolo della creatività italiana, ed accogliere la sua arte a Siena significa non solo rendere omaggio a un maestro, ma riaffermare il valore della cultura come motore di innovazione e partecipazione”. Ad arricchire la visita allo storico edificio, al piano terra, ci saranno una libreria con merchandising e prodotti dedicati e un bistrot accessibili, così come tutte le altre sale, anche per chi ha difficoltà motorie. A sostenere il progetto culturale del Palazzo sono intervenuti anche: Estra, Terre Cablate, il Consorzio del Vino Brunello di Montalcino e Lavazza, mentre media partner dell’evento saranno QN – La Nazione e Canale 3 Toscana. Palazzo delle Papesse offrirà attività didattiche, visite inclusive e laboratori attraverso il progetto “Papesse Lab”, con l’obiettivo di avvicinare il pubblico all’arte e ampliare lo sguardo dello spettatore, qualunque età abbia, indagando nelle pieghe della realtà. Per partecipare a tutti gli eventi e gli appuntamenti espositivi del 2026 Opera Laboratori promuove una card, la “tessera del curioso”, acquistabile online oppure presso la biglietteria del Palazzo, che consentirà accessi illimitati entro un anno dall’attivazione e una scontistica sui prodotti in vendita al bookshop, sulle consumazioni in caffetteria e sui laboratori didattici. Al termine dell’anno, i titolari della tessera potranno rinnovarla, proseguendo così l’esperienza con accessi illimitati a mostre, eventi e iniziative: un’opportunità per rimanere connessi con l’attività culturale di Palazzo delle Papesse. (gci)
DALLE PAGINE ALLA TELA CON “ILLUSTRAZIONI PER L’USO” DI MAURIZIO CECCATO
Dal 5 al 15 dicembre 2025, la Fondazione Toti Scialoja (Via di Santa Maria in Monticelli, 67) a Roma ospita "Illustrazioni per lʼuso", mostra personale di Maurizio Ceccato, illustratore, graphic designer e autore “visivo e visionario”, tra i più originali della scena editoriale e artistica italiana, frutto di un approccio concettuale e spesso ironico tutto da decifrare. L’esposizione è parte di un progetto che nasce dall’omonimo libro, edito nel 2020 dalla casa editrice Italo Svevo, la stessa che supporta anche questa nuova sfida dell’autore. In questa occasione l’artista, attraversando i territori dell'immagine stampata, approda dal foglio alla tela, in un percorso puntellato da 23 “tappe”, che comprende anche una serie in serigrafia al fluoro, visibile solo al buio. Proprio come il libro, anche la mostra propone disorientanti abbinamenti, talvolta sarcastici, in altri casi (come nell’illustrazione dell’infibulazione) più riflessivi, tra proverbi e illustrazioni catturati da bugiardini e libretti d’istruzioni, risultato di un’opera di ricerca che ha portato l’autore a scandagliare ben 25.000 proverbi italiani e 3.250 bugiardini e istruzioni. Ogni illustrazione diventa un dispositivo da leggere, da interpretare, da maneggiare. Ceccato offre al pubblico un’immersione nel suo laboratorio, un’occasione per scoprire la forza del segno e del disegno come forma d’arte, strumento attivo nel mondo contemporaneo, capace di unire funzione e visione, estetica e racconto. Ogni proverbio è affiancato (mai sovrapposto) all’immagine, ma attenzione, è ben lontana da Ceccato l’intenzione di darne una spiegazione. Piuttosto egli gioca con la diversità della sintassi tra questi due tipi di linguaggio espressivo, che corrono su due rette parallele. Arriva a metterle al centro della sua ricerca quasi a volere innescare un cortocircuito… Quando immagine e parola si ritrovano nello stesso ambiente (che sia una mostra o un libro), quando vengono messe assieme, allora può nascere l’imprevisto. È una sorta di operazione di matematica filosofica, in cui 1+1=3. E qui trova espressione la provocatoria e divertita intenzione di spiazzare lo spettatore che, sebbene non si sentirà mai a disagio, resta forse perplesso. Dalla presentazione dello storico dell’arte Giuseppe Garrera: “Ciò che regola il disegno è la cecità (la storia dell’arte come svista). Ciò che regola la grammatica e la sintassi è il tacere (da qui il fatto che non esistono conversazioni innocenti). La narrazione, ogni narrazione, è vana di fronte alla realtà e al mondo”. Maurizio Ceccato, ha vinto la Grande Estrazione Occidentale nel 1970. Ha imparato a leggere, scrivere e disegnare con i fumetti. Vestito da designer autarchico ha fondato lo studio e casa editrice bonsai IFIX, che produce il libro-magazine retrofuturista di narrazioni e illustrazioni italiane “WATT – senza alternativa” e i parallelepipedi di carta a fumetti “B comics – fucilate a strisce”. Ha indossato i panni di art director e illustratore per case editrici (Fazi, Elliot, Arcana, LUISS University Press) e periodici (il manifesto, Il Fatto Quotidiano, L’Espresso) e usato il cabaret come grimaldello in rassegne d’arte e lavori multimediali. Come disertore della grammatica ha pubblicato “Non capisco un’acca” (Hacca, 2011) e “Illustrazioni per l’uso” (Italo Svevo, 2020). Dal 2023 conduce la rubrica “cover story” su Il Sole 24 Ore. (gci)
NELLA FOTO. Carla Accardi
Oroblu (Oriente n. 2), 1965
tempera alla caseina su tela
190 x 220 cm
Roma, collezione dell’artista
archivio n. 419
Celant 1999, p.
297, n. 1965 5, ripr.
(dettaglio)




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