Paolo Pombeni
C’era da aspettarselo: il test delle regionali d’autunno ha continuato a fornire l’immagine di un paese spaccato e incerto, per cui la maggioranza attuale studia come potersi consolidare nella prossima legislatura e le opposizioni ragionano su come trarre profitto dalla situazione per giungere a prevalere alle prossime elezioni. In verità, confusione chiama confusione, sicché non c’è da aspettarsi molto di buono.
Molto sembra concentrarsi sul tentativo di fare l’ennesima riforma della legge elettorale, nella eterna illusione che basti inventarsi la “porcata” giusta (tanto per riprendere una famosa definizione di Calderoli) per raggiungere quel risultato che altrimenti non uscirebbe dalla decisione degli elettori. Si capisce che in un contesto dove a votare, se va bene, ci va la metà degli aventi diritto la spinta a sfruttare la situazione è molto forte. Come abbiamo già avuto occasione di scrivere, la scelta più che ambigua è puntare sulla radicalizzazione della spaccatura in due dell’elettorato. Qui l’ambiguità sta nel fatto che manca il presupposto per una applicazione razionale di questa strategia: il paese è artificialmente spaccato in due, in realtà è frammentato in molte più parti che possono, ma anche non possono riuscire a coalizzarsi in due campi, per cui si strologa su come fare a costringere la costruzione di un assetto solidamente bipolare.
Molto sembra concentrarsi sul tentativo di fare l’ennesima riforma della legge elettorale, nella eterna illusione che basti inventarsi la “porcata” giusta (tanto per riprendere una famosa definizione di Calderoli) per raggiungere quel risultato che altrimenti non uscirebbe dalla decisione degli elettori. Si capisce che in un contesto dove a votare, se va bene, ci va la metà degli aventi diritto la spinta a sfruttare la situazione è molto forte. Come abbiamo già avuto occasione di scrivere, la scelta più che ambigua è puntare sulla radicalizzazione della spaccatura in due dell’elettorato. Qui l’ambiguità sta nel fatto che manca il presupposto per una applicazione razionale di questa strategia: il paese è artificialmente spaccato in due, in realtà è frammentato in molte più parti che possono, ma anche non possono riuscire a coalizzarsi in due campi, per cui si strologa su come fare a costringere la costruzione di un assetto solidamente bipolare.
Il marchingegno che la maggioranza attuale propone è un sistema di voto proporzionale, quindi con abolizione della quota di collegi uninominali, in cui ci sia un premio di maggioranza da attribuirsi a chi prevarrà con almeno il 40-42% di voti nella competizione elettorale che conseguirebbe così il 55% dei seggi. È evidente che un simile traguardo è raggiungibile solo da coalizioni, le quali dovrebbero però anche indicare il nome del loro candidato unitario al ruolo di Presidente del Consiglio. Poiché, come si usa dire, l’appetito vien mangiando, ecco che ci si allarga (il che non sarebbe obbligato): si cerca di stabilire che l’indicazione del nome del candidato premier equivale legalmente alla sua automatica designazione nel ruolo. Insomma si avrebbe una elezione diretta del Presidente del Consiglio.
I pasticci in questa impostazione non sono pochi. Per esempio che succede se nel corso della legislatura la coalizione vincente si sfascia? Si dirà: si torna davanti all’elettorato. Ma questo lederebbe, sia la libertà di azione dei parlamentari, sia la prerogativa del parlamento di fornire un governo al paese con la sua autonoma azione (il che è perfino più grave dell’asserito vulnus al potere del Presidente della Repubblica di conferire l’incarico, perché si sa che per prassi se c’è un’indicazione chiara da parte dell’elettorato e dei partiti non è che il Quirinale fa prevalere una sua autonoma iniziativa: avviene solo quando manca quella chiarezza).
Non fermiamoci qui. Dare la vittoria a chi raccoglie il 40% dei voti non è un meccanismo che agevoli una legittimazione del premier: gli sarà sempre rinfacciato di avere contro il 60% della rappresentanza politica (nonostante l’artificio del premio di maggioranza per quella parlamentare) e, quel che è peggio, di essere espressione di una quota minoritaria del corpo politico (se metà degli aventi diritto non vota, quel 40% si dimezza…). Come dire: avremo costruito una stabilità artificiale del governo a cui corrisponderà una battaglia infinita per la sua delegittimazione con argomenti che sarebbe bene non sottovalutare.
Ci sono poi altre non piccole, né banali disfunzioni: si pensi solo alla complicazione di un bicameralismo paritario, fra il resto con regole di elezione parzialmente diverse fra Camera e Senato a stare al dettato letterale della nostra Carta. Quel che si immagina per evitare che il sistema di elezione semi-diretta del premier possa reggere in questo contesto è più che altro macchinismo fantasioso.
Naturalmente puntare a tenere in piedi a tutti i costi il sistema elettorale oggi in vigore è un’operazione più che miope. Questo sistema ha tutte le caratteristiche per allontanare i cittadini dalla partecipazione politica. I collegi uninominali dopo la riduzione del numero dei parlamentari sono conglomerati così ampi da rendere difficilissimo qualsiasi rapporto di rappresentanza reale di un corpo che è una invenzione amministrativa. Le liste bloccate delle candidature hanno ristretto la selezione della classe politica alle lotte di clan interne ai partiti.
Eppure le opposizioni sembra non vogliano la revisione del sistema elettorale per tenersi quello attuale. Alcuni suppongono che sia perché sulla base di proiezioni dei risultati nelle elezioni regionali il cosiddetto campo largo pensa di poter conquistare tutti i collegi uninominali al sud raggiungendo così la possibilità di sconfiggere l’attuale governo (per inciso: per lunghi decenni della nostra storia repubblicana il Sud era il punto di forza della destra, adesso sembra sia il contrario…). Altri, forse più realisticamente, pensano che quella del campo largo sia, soprattutto per il PD, una opposizione di facciata: attribuire la responsabilità della riforma alla destra, accusandola di volere i pieni poteri, avrebbe un vantaggio polemico, mentre un sistema tutto proporzionale in realtà favorirebbe la competizione interna alle sue componenti che sono piuttosto difficili da amalgamare (c’è il problema della individuazione di chi in quel campo dovrà essere il candidato premier: questione spinosa, ma non così dirimente come può sembrare…).
Una sistemazione del confronto sulla legge elettorale è resa molto difficile dall’intreccio con la questione del referendum sulla riforma Nordio: da una parte e dall’altra lo si vede come l’occasione per ravvivare la polarizzazione rovente fra i due campi e magari per spingersi una volta di più sulle onde delle opposte demagogie. Un giochetto più che pericoloso: in questo delicatissimo momento sia sul piano delle relazioni internazionali sia su quello delle trasformazioni economiche e sociali non possiamo proprio permetterci di essere un paese attanagliato in una sorta di guerra civile fredda e a bassa intensità.
(da mentepolitica.it )
(© 9Colonne - citare la fonte)




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