di Paolo Pagliaro
(19 settembre 2017) Quest’anno 50 mila studenti africani si sono iscritti alle università cinesi. Erano 5 mila dieci anni fa, ma nel frattempo il numero di borse di studio concesse da Pechino ai giovani africani è aumentato di 300 volte. Le ambasciate cinesi sono moto attive e consentono ai giovani interessati di sbrigare le pratiche burocratiche con facilità e celerità.
L’Italia è molto meno attrattiva, e non solo per gli studenti africani. Non importiamo cervelli ma li esportiamo, e giorni fa Confindustria ha stimato in 14 miliardi il costo di questa fuga.
Secondo l’imprenditore Riccardo Illy, che ne scrive oggi su inpiu.net, sono cinque i fattori che spingono i nostri laureati all’estero e respingono gli stranieri che vorrebbero completare gli studi o lavorare in Italia.
Primo: la burocrazia, che ci vede perdenti nei confronti di tutti i partner europei e che per i giovani è fumo negli occhi.
Secondo: le retribuzioni inferiori, anche se il costo del laureato per l’impresa è quasi lo stesso che negli altri Paesi. Sono gli oneri previdenziali che da noi falcidiano la busta-paga.
Terzo: la dimensione delle aziende, che penalizza l’Italia; e si sa che più è piccola l’impresa, meno investe in ricerca e meno laureati assume.
Quarto: la bassa incidenza delle spese di ricerca e sviluppo, anche pubblica: nel 2015 l’1,33% del PIL, contro il 2,87% della Germania e il 2,03% della media europea Meno spesa in ricerca, significa meno laureati occupati.
Quinto: le prospettive del paese; i giovani più capaci – scrive Illy - pensano che l’Italia non abbia futuro e preferiscono investire in un altro paese con migliori prospettive di sviluppo, personali e sociali.
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