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La solitudine
del 20 settembre:
una riflessione mancata

La solitudine <br> del 20 settembre: <br> una riflessione mancata

Roberto Calabria

(20 settembre 2019) Celebrare il 20 settembre trasmette un senso di solitudine. E per la minoranza che coltiva questa memoria risulta molto arduo spiegare – specie a coloro che sono totalmente indifferenti alla ricorrenza – il perché sia necessario continuare a dare vita all’anniversario della Breccia di Porta Pia. Sempre che lo sia. Interrogandosi sui motivi di questo sentirsi una esigua minoranza, sulle difficoltà a rendere esplicite le ragioni di un’adesione sentimentale prima che ideologica, si scopre che queste difficoltà non appartengono solo ai tempi più recenti, ma sono in qualche modo connaturate da sempre alla memoria dell’evento.

 

L’INONDAZIONE. A partire da una semplice considerazione storico-metereologica: piovve molto a Roma nell’autunno del 1870. E la pioggia allora – come purtroppo ancora oggi - produceva gravi disastri. Un testimone di prestigio come Ferdinand Gregorovius, nei suoi “Diari romani”, ci racconta la terribile alluvione che colpì Roma alla fine del 1870 e una visita d’eccezione che ricevette la città proprio in quei giorni terribili: “Il 28 (dicembre, ndr) il Tevere è straripato con tremenda violenza sommergendo mezza Roma. La piena è salita improvvisamente alle cinque di mattina e presto ha ricoperto il Corso, giungendo, attraverso la via del Babuino, fino a piazza di Spagna. Dal 1805 nessuna inondazione del Tevere aveva raggiunto una simile altezza. Il ghetto, la Lungara, la Ripetta hanno sofferto parecchio. I danni ammontano a molti milioni. Singolare l’aspetto delle strade, dove si aggiravano barche, come Venezia; i lampioni e i lumi gettano sull’acqua riflessi ampi e brillanti. Dalle case grida disperate che richiedono il pane. […] I preti hanno subito urlato che questa era la mano di Dio e l’effetto della scomunica papale. […] Stamattina è venuto il re. Cronache medievali narrano spesso di draghi acquatici gettati a Roma dalle inondazioni del Tevere; la grande balena è stata questa volta Vittorio Emanuele. Ha messo Roma in un’agitazione febbrile. Ancora allagata, la città si copre di tricolori. […]. Che singolare chiusura d’anno è per Roma quest’apparizione del re dell’Italia unita! Con essa si conclude il medio evo”. Il racconto enfatico del celebre storico tedesco sull’arrivo del sovrano – a più di tre mesi dalla Breccia di Porta Pia – rende però molto parzialmente il senso della realtà. L’ingresso del re liberatore in città fu tutt’altro che trionfale: Vittorio Emanuele II arrivò in treno a Termini alle 3.40 della notte tra il 30 e il 31 dicembre, poi si recò al Quirinale dove si affacciò brevemente per salutare la folla. L’indomani mattina visitò la città per rendersi conto di persona dei danni, poi nel pomeriggio la ripartenza per Firenze. In realtà, la visita del re nella Città eterna era un evento molto atteso dopo il 20 settembre, tanto che fervevano i preparativi per studiare un percorso simbolico e rituale all’altezza della solenne occasione: uno dei progetti allo studio, ad esempio, voleva che il sovrano salisse sul Campidoglio per la via Sacra, attraverso il Foro Romano, tra il Colosseo e gli Archi di Costantino, di Tito e di Settimio Severo. Furono motivi di opportunità politica e diplomatica, sottolinea lo storico Bruno Tobia, a spingere il governo a consigliare a Vittorio Emanuele di adottare un profilo basso e di recarsi a Roma nei giorni dell’inondazione del Tevere, in modo da poter “confondere l’audacia dell’acquisto della Città eterna con la sovrana sollecitudine verso sudditi tanto duramente colpiti”. 

 

CONCEZIONI. Sullo sfondo di tale timidezza c’erano i differenti significati che la presa di Roma (nel duplice aspetto di passaggio della città dalla sovranità pontificia a quella dello Stato italiano e di fine del potere temporale del Papa) aveva per le diverse correnti politico-culturali del Risorgimento. Il mito di Roma – con il suo portato di universalità e gloria - era sia al centro del pensiero mazziniano (la Terza Roma del Popolo dopo quella dei Cesari e dei Papi) che del neoguelfismo giobertiano (nel suo sforzo di conciliare papato e nazionalità, che naufragò però nel ’49). Successivamente l’istanza fu fatta propria dai moderati, da Cavour e i suoi seguaci: scelta compiuta nel segno del principio della libera chiesa in libero stato, ma anche per la necessità di assorbire le rivendicazioni dei democratici e dei mazziniani, mentre si consumavano nel fallimento i tentativi garibaldini verso Roma (Aspromonte nel 1862, Mentana nel 1867). Se per la maggior parte dei moderati appartenenti alla destra storica la presa di Roma era un punto d’arrivo, nell’illusione di chiudere rapidamente il conflitto con il Papato (in quest’ottica la legge delle guarentigie del 1871), per molti altri il 20 settembre doveva rappresentare un punto di partenza, nella prospettiva di una laicizzazione marcata del Paese: era così per Quintino Sella ma anche per gli esponenti della Sinistra storica, nonché naturalmente per le correnti democratiche e mazziniane in una prospettiva repubblicana. Un punto di partenza era anche per alcuni esponenti del cattolicesimo liberale, che auspicavano una riforma della Chiesa a cui avrebbe dovuto mettere mano lo Stato, mentre quelli intransigenti vedevano nel 20 settembre il culmine della lotta tra il potere di Dio e quello di Satana, che si sarebbe dovuto concludere con la restituzione del “maltolto” al Papa.

 

CELEBRAZIONI. Ma più che l’ostilità da parte di questi ultimi, a influire negativamente e fin da subito sulle celebrazioni del 20 settembre furono le divisioni nel campo dei vincitori. Celebrazioni che si svolsero spontaneamente, su iniziativa locale, a partire dal 1871: fin dall’inizio vi fu una distinzione tra l’iniziativa promossa dalle autorità municipali, con il sostegno di quelle governative (commemorazione che celebrava il compimento dell’unità sotto l’egida delle istituzioni monarchiche, senza la volontà di urtare troppo il Vaticano) e quella popolare e radicale, promossa dai circoli cittadini, dalle associazioni operaie, dalle società massoniche e dai gruppi universitari, che considerava il 20 settembre come l’inizio di un’altra era all’insegna della laicità.

Un momento chiave arrivò nel luglio del 1895, in occasione del “Giubileo” della Breccia di Porta Pia, quando la ricorrenza del 20 settembre venne considerata festa agli effetti civili. In seguito, una forte accentuazione della partecipazione alle celebrazioni si ebbe negli anni dell’amministrazione Nathan, tra il 1907 e il 1913. Mano mano, però, con la “conciliazione silenziosa” avviata sotto il periodo giolittiano (ricordiamo il Patto Gentiloni stretto in vista delle elezioni del 1913, con cui si superarono di fatto gli effetti del “Non expedit” sulla partecipazione dei cattolici alla vita politica del nuovo stato unitario) e con il sopraggiungere di nuovi problemi sorti in relazione al primo conflitto mondiale, si smarrirono sia il senso laico che quello unitario e patriottico della celebrazione. Sotto il fascismo la festa venne soppressa nel 1930 (con la motivazione che “era una festa che non univa l’anima nazionale intorno ad una data gloriosa, ma anzi in talune occasioni avrebbe potuto dividerla sempre più acerbamente tra opposte fazioni”), sostituita dalla celebrazione dei Patti Lateranensi sottoscritti l’11 febbraio del 1929. Significativo, in parallelo all’abolizione della festività, è l’erezione del Monumento al Bersagliere nel 1932. In sostanza, la ricorrenza mutava notevolmente di senso: da celebrazione divisiva nella società e nella politica italiana del trionfo della laicità contro l’oscurantismo, diventava la glorificazione potenzialmente unitaria di uno dei corpi dell’esercito italiano.  Nel secondo dopoguerra, con il partito d’ispirazione cattolica al governo, questa rimozione è stata rinnovata, né il mondo laico ha avuto la forza o ha avvertito la necessità di promuovere questa tradizione. E Oltretevere la tensione man mano è scemata, come dimostra la partecipazione del cardinale Tarcisio Bertone – prima volta per un segretario di Stato Vaticano – alle celebrazioni del 2010, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Italia unita.

 

 

CONCLUSIONI. In sostanza, come spiega lo storico Guido Verucci, il 20 settembre resta qualcosa di incompiuto: “Non si realizzarono né le aspirazioni iniziali degli uomini della Destra a una conciliazione con la Chiesa sulla base della libertà e della separazione, né quelle iniziali degli uomini della Sinistra e dell’Estrema Sinistra a realizzare effettivamente in Italia uno stato laico, né quelle delle forze radicali e repubblicane a realizzare un sistema democratico e repubblicano, oltre che uno stato laico. Non si realizzarono neppure le speranze dei cattolici liberali e moderati che sulle rovine del potere temporale sorgesse una Chiesa cattolica rinnovata. Non si realizzarono peraltro le speranze di distruzione e autodistruzione dello Stato italiano, le aspirazioni a una restaurazione del potere temporale, proprie dei cattolici più intransigenti”.

 

Ma proprio questo senso di incompiutezza – a mio avviso – è la spia che deve spingerci a tornare a riflettere sul 20 settembre, per un duplice ordine di ragioni. Prima di tutto perché è quanto mai necessaria una riflessione sulla laicità dello Stato, alla luce ad esempio dei temi legati alla bioetica che talvolta conquistano il centro del dibattito pubblico ma che raramente trovano risposte legislative all’altezza delle aspettative dei cittadini, ma anche alla luce dell’evoluzione in senso multiculturale della nostra società, con tutte le sfide e le criticità che questa porta con sé.

In secondo luogo perché a quella domanda che Theodor Mommsen rivolse a Quintino Sella una sera del 1871 (“Che cosa intendete fare con Roma?”) non è stata data ancora una risposta definitiva e convincente. Insomma, il 20 settembre può rappresentare davvero un’occasione per accendere la luce sul presente e sul futuro dell’Italia e della sua capitale, affinché la riflessione sulle occasioni mancate del passato possa aiutarci a cogliere nuove opportunità in questo tempo che stiamo vivendo.

(© 9Colonne - citare la fonte)