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direttore Paolo Pagliaro

Plautilla Bricci,
l’architettrice
romana del ‘600

Libri
Ogni settimana uno scaffale diverso, ogni settimana sarà come entrare in una libreria virtuale per sfogliare un volume di cui si è sentito parlare o che incuriosisce. Lo "Speciale libri" illustra le novità delle principali case editrici nazionali e degli autori più amati, senza perdere di vista scrittori emergenti e realtà indipendenti. I generi spaziano dai saggi ai romanzi, dalle inchieste giornalistiche, alla storia e alle biografie.

Plautilla Bricci, <br> l’architettrice <br> romana del ‘600

 

PLAUTILLA BRICCI, L’ARCHITETTRICE ROMANA DEL ‘600 

Melania Mazzucco dedica la sua ultima fatica letteraria, “L’architettrice” (Einaudi), alla madre Andreina, studentessa di architettura che negli anni Cinquanta del Novecento “lasciò l’’università quando scoprì che più rari dell’hibonite erano gli architetti donna”. Una dedica che spiega tutta l’attualità della figura storica protagonista del suo romanzo, Plautilla Bricci (1616-1705), una donna e un’artista eccezionale (in tutte le accezioni del termine) che riuscì a farsi strada e a realizzare le proprie aspirazioni nella Roma di Papa Urbano VIII Barberini e Alessandro VII Chigi, di Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.  Una vita lunghissima e quasi unica, la sua, che può forse trovare un parallelo solo nel caso di Artemisia Gentileschi, pittrice di scuola caravaggesca (1593-1654). Sarà l’incontro con l’abate Elpidio Benedetti, segretario del potente cardinale Mazzarino, a fornire a Plautilla l’occasione della vita, consentendole di diventare “l’architettrice” e progettare con il contributo del fratello Basilio la Villa del Vascello, detta così perché a forma di veliero, sul Gianicolo.

 

IL VASCELLO. Di questa villa oggi restano pochi ruderi, tra cui il muro a forma di “scoglio”: il Vascello è stato infatti nell’estate del 1849 uno dei luoghi dell’eroica ed estrema resistenza della Repubblica romana contro le truppe francesi sbarcate a Civitavecchia per riportare il Papa Re sul trono, spegnendo gli ideali di libertà e democrazia della “primavera dei popoli” (alle vicende ottocentesche della villa l’autrice dedica cinque intermezzi nel suo romanzo). Un luogo di altri sogni, sebbene infranti, accesi in quello che era stato il sogno della vita di Plautilla.

 

LA BALENA. Un sogno che inizia nella primavera del 1624, poco lontano da dove più di due secoli dopo sbarcheranno i soldati del generale Oudinot, lì sul lido di Santa Severa, dominato dal Castello sorto nell’area in cui secondo la tradizione trova la morte la giovane martire cristiana e le cui origini si disperdono nell’età del Bronzo. Quando Plautilla ha 8 anni, il padre l’accompagna su quel lido, dove per una circostanza eccezionale (come la sua vita) si è arenata una balena, presenza inusuale nel Mediterraneo.  “Fu la prima – e l’unica – volta che vidi il mare” ricorda con malinconia Plautilla, ripercorrendo la sua vita a sessant’anni di distanza. Riporta a casa un dente di quella balena, che rimarrà sullo scrittoio del padre e poi suo per tutta la vita. “Non ci sono balene nel mare nostro, Plautilla, disse mio padre, meditativo. Ma non vuol dire che non esistano. Per questo mi è caro il dente e lo terrò sempre con me. È una promessa capisci? Le cose che non conosciamo, esistono da qualche parte. E noi dobbiamo cercarle, o crearle”. Fu un’illuminazione destinata a segnare l’esistenza di Plautilla, metafora della creazione artistica ma anche di una vita vissuta in modo impensabile per le regole e le consuetudini del proprio tempo.  

 

IL BRICCIO.  “L’architettrice” è il ritratto – storicamente fondato e umanamente appassionato – che una donna fa di una donna, indagando in profondità le relazioni di una storia personale e familiare. Dalla madre Chiara testimone di tradizione e continuità (“lei diceva che siccome non eravamo ricche la nostra unica dote sarebbe stata la reputazione” è una delle sue massime “distillate” per le figlie) al padre Giovanni Briccio – pittore di scarsa fama ma popolare commediografo - con cui Plautilla ha un rapporto di amore e odio, stravagante “cane randagio” in un’epoca in cui era necessario avere un padrone. “Mio padre riponeva le sue speranze di discendenza artistica nel mio fratellino Basilio, e aveva già dato il suo amore a mia madre e a mia sorella Albina. Non ne aveva abbastanza anche per me”.  Però solo Plautilla ha visto la balena e ha compreso il valore simbolico di quel dente. Così, quando resta infermo, il Briccio educa la figlia Plautilla al mondo dell’arte consegnandola nel medesimo tempo al destino della verginità: “Non sarei stata chi sono se il Briccio avesse potuto continuare a dipingere, illustrare libri, allestire commedie e svolazzare tra chiese e accademie a dissertare e a recitar sermoni. Quando ha dovuto rinunciare a se stesso, ha fabbricato me”.

 

ROMA. La storia di una donna atipica e della sua famiglia, quella raccontata nel romanzo della Mazzucco, ma anche un affresco della Roma seicentesca, splendente e violenta al tempo stesso, “stupenda e misera” per dirla con Pier Paolo Pasolini. "Chiunque poteva sparire dall’oggi al domani, morire per una febbre qualsiasi o la puntura di un insetto, affogare nel Tevere, finire spiaccicato sotto un carro, fracassato dal calcio di un cavallo, ammazzato per rapinargli il mantello, perché non aveva dato la precedenza o fatto passare una carrozza, perché non aveva salutato un nobile o il suo palafreniere, un potente o un prepotente con adeguata sottomissione, o anche per nessun motivo. I miei compagni di giochi non crescevano con me, e mi congedavo da loro salutandoli dalla finestra quando all’imbrunire li conducevano alla sepoltura. Alle mie sorelline ho fatto appena in tempo a insegnare a cantarellare le strofette del maggio e ad allacciarsi le fettucce delle calze, che già dovevo vestirle per l’ultima volta, e avvolgerle in un sudario talmente piccolo che sembrava contenesse le spoglie di un gatto. Si pregava di continuo, più volte al giorno, il Signore Iddio e la corte dei santi: però non tanto per vivere, quanto per morire bene e abbreviare il soggiorno in purgatorio per essere accolti in paradiso".

 

LA PROMESSA. Una lunghissima vita, in cui Plautilla vede sparire man mano nell’ombra affetti e figure familiari e al cui tramonto nessuno sa più nulla di lei, con il suo nome che “giace tre palmi dentro la terra vergine, confitto nel cuore del Colle che chiamano Monte Giano”, inciso su una lamina di piombo nelle fondamenta del Vascello. “Il dente della balena è qui, sul mio scrittoio. Ho dovuto abbandonare tutto il resto, ma a quello non avrei mai rinunciato. Non ha piú odore né colore. Le setole sono cadute, e la polvere s’è infiltrata nei pori, colorandolo con una patina di cenere. Ogni giorno lo guardo. Mio padre mi ha lasciata da quasi sessant’anni. Non ricordo piú la sua voce, nemmeno i lineamenti del suo viso, da quando ho regalato il libro che conteneva il suo ritratto. Eppure vorrei dirgli, ovunque sia, che anche io ho mantenuto la promessa”. 

 

NUCCIA VONA E LE “HISTORIAS DE TANGO”   

Una scrittura scorrevole e delicata, che racconta l’intimità di un popolo, tra speranza, angoscia, passione ed eros, a servizio di un romanzo storico che offre al lettore anche numerosi spunti di riflessione sull’epoca contemporanea. Estimatrice della bellezza, Nuccia Vona – di Caltagirone, in provincia di Catania – ama le arti e la cultura ed è attivamente impegnata per la loro salvaguardia e valorizzazione. “Historias de Tango”, edito da Puntostampe, un libro da leggere e da ascoltare , che trae le mosse dalla fascinazione “subita” dall’autrice Nuccia Vona per il ballo argentino nel 2011, anche sotto il profilo musicale. Nei mesi scorsi, la Libera Università Rurale dei Saperi e dei Sapori, diretta da Nino Sutera, ha insignito la scrittrice del prestigioso riconoscimento di “Custode dell’Identità Territoriale”. Un premio che l’Università Rurale  assegna a coloro che, a vario titolo,  promuovono la storia, le tradizioni e il patrimonio culturale dei luoghi, una risorsa di  inestimabile valore che racchiude le specificità locali tutelandole rispetto al fenomeno della globalizzazione che tende a livellare usi, costumi e prodotti, omogeneizzandoli. Il libro offre al lettore l’opportunità di approcciare l’essenza di un popolo di emigrati in Argentina che determinarono la nascita del ballo, descrivendo i sentimenti dei protagonisti che, in  momenti diversi, hanno vissuto il tempo del tango nel profondo della loro intimità, attraverso un itinerario introspettivo ed emozionale di forte impatto.

Tanti sono i personaggi che popolano le “historias” narrate dall’autrice che, sebbene al debutto letterario, vanta una padronanza espressiva mirabile. Oggi è l’Italia, invece, a rappresentare un porto di approdo per chi nasce dall’altra parte del Mediterraneo: emigrazione e immigrazione, dunque, rappresentano facce diverse della stessa medaglia, seppure in contesti storici diversi. Una lettura consigliata a chi ama il tango ma anche a coloro che volessero riflettere sui fenomeni dell’emigrazione e dell’immigrazione: il libro tocca infatti il tema dei flussi che dall’Italia si dirigevano verso lidi lontani  e della gente che andava alla ricerca di nuove opportunità per sé e per i propri figli. Ad impreziosire la narrazione, le foto che documentano il contesto storico, congiuntamente ai testi delle canzoni e alle citazioni. Di particolare rilievo la ricerca, doviziosa e attenta, curata anche nei minimi dettagli. Il merito dell’autrice è soprattutto quello di condurre il lettore attraverso un viaggio immaginario che termina con un finale per nulla scontato, che desta curiosità e sollecita la lettura del capitolo successivo. Filo conduttore del romanzo, articolato in diversi racconti, è proprio il tango quale elemento identitario del popolo argentino. Un tesoro di così grande valore da essere dichiarato dall’Unesco, nel 1990, patrimonio dell’umanità come “Bene Culturale Immateriale”.

 

 

PIERO DELLA FRANCESCA SECONDO BERNARD BERENSON

“L’impassibilità delle figure di Piero della Francesca, che nessuna emozione sembra possa turbare, e la sua deliberata astensione da qualsiasi amplificazione retorica, in un’epoca di passioni esasperate come la nostra, riposa, calma, blandisce lo spettatore e lo costringe alla gratitudine e all’adorazione”. “Piero della Francesca. O dell’arte non eloquente” di Bernard Berenson (La Nave di Teseo, introduzione di Vittorio Sgarbi)  è un’opera irriverente e rivoluzionaria, un testo cardinale della critica d’arte novecentesca. Berenson insegue la bellezza nascosta e silenziosa a partire dall’arte classica, attraverso le luminose prove medievali, fino alle soglie della modernità di Cézanne, Degas e van Gogh. Perché l’arte è senza tempo, come eterno e sempre nuovo è lo stupore che suscita in noi. Bernard Berenson (Butremanz, 1865 – Firenze, 1959), nato in Lituania, si laurea in Letteratura nel 1887 all’Università di Harvard, prima di trasferirsi in Europa grazie a una borsa di studio. Qui matura la sua vocazione per la critica e la storia dell’arte, visitando e familiarizzando con le collezioni più importanti e affermandosi tra i maggiori studiosi della pittura italiana. Tra le sue opere ricordiamo: I pittori italiani del Rinascimento (1936), Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva (1948), Echi e riflessioni. Diario 1941-1944 (1950), Lotto (1954).

“LA DITTATURA DELLE ABITUDINI” SECONDO CHARLES DUHIGG

Come ha fatto un generale americano in Iraq a sedare dei tumulti di piazza con l’aiuto del fast food? Come è riuscito Michael Phelps a ottenere i suoi record mondiali di nuoto con gli occhialini pieni d’acqua? Come è possibile che i pubblicitari riescano a identificare e catalogare le donne incinte prima ancora che lo vengano a sapere i loro mariti? La risposta è una sola: attraverso le abitudini. E benché, singolarmente prese, non abbiano grande significato, nel loro complesso le abitudini influenzano enormemente la nostra salute, il nostro lavoro, la nostra situazione economica e la nostra felicità. Da secoli gli uomini studiano le abitudini, ma è solo negli ultimi anni che neurologi, psicologi, sociologi ed esperti di marketing hanno realmente incominciato a capire in che modo funzionano e, soprattutto, come possono cambiare. Le abitudini, infatti, non sono un destino ineluttabile: leggendo questo libro impareremo a trasformarle per migliorare la nostra professione, la collettività in cui viviamo, la nostra vita. Questi i temi del saggio “La dittatura delle abitudini. Come si formano, quanto ci condizionano, come cambiarle” (Corbaccio)  di Charles Duhigg, L’autore, laureato alla Harvard Business School, è stato a lungo giornalista del New York Times. Inviato di guerra in Iraq, ospite di trasmissioni radiofoniche come This American Life, PBS NewsHour e Frontline, è autore di inchieste giornalistiche che gli hanno valso, tra gli altri, il Premio Pulitzer nel 2013. Charles Duhigg vive a Brooklyn con la moglie e i due figli.  

 

L’INGANNO PERFETTO DI NICHOLAS SEARLE

La foto questa volta non ha mentito. Roy la riconosce appena entra nel locale: lineamenti di porcellana e una figura esile, perfetta, l’incedere fiero e sfrontato. Niente a che vedere con le vedove assegnategli finora dal sito che accoppia maldestramente vecchi insignificanti a donne consumate e depresse. Anche Betty lo individua subito: distinto e autorevole, capelli candidi ravviati all’indietro, occhi azzurri impressionanti. Se lo scorrere del tempo non avesse conferito a quello sguardo un che di malinconico, la donna di fronte a lui avrebbe quasi paura. Ma non importa, perché lo ha trovato e vuole andare fino in fondo. Perché ci sono cose che non possono essere dimenticate. Né perdonate.A Roy, lei sembra un dono piovuto dal cielo, il bersaglio ideale per il colpo che lui, truffatore di lungo corso, intende mettere a segno. L’ultimo, il più importante, un vorticoso giro di roulette prima di ritirarsi dalle scene. Il piano è semplice, un classico più volte collaudato. Basta attenersi al copione e funzionerà. E infatti, come previsto, Betty gli apre le porte del suo mondo. Eppure, a poco a poco, Roy si ritrova su un palcoscenico diverso, protagonista suo malgrado di un secondo atto inatteso e funambolesco, il più insidioso cui abbia mai preso parte. Forte di una scrittura asciutta e briosa, nel romanzo “L’inganno perfetto” (Rizzoli) Nicholas Searle ci consegna una storia ingegnosa di scatole cinesi e ambiguità, un romanzo da cui nasce oggi un film in cui i due protagonisti hanno il volto di Helen Mirren e Ian McKellen, mostri sacri del cinema contemporaneo.

 

(© 9Colonne - citare la fonte)