Come hanno già detto tutti, e noi con loro, le elezioni europee costituiscono una prova piuttosto impegnativa per le forze politiche: non solo per le variegate opposizioni di sinistra che si vedranno fotografate nel loro consenso (anche se non quello vero per le competizioni italiane, ma quello più o meno di opinione), ma anche per la coalizione di destra-centro che si rivelerà meno solida di quanto vuole apparire.
I temi unificanti nelle contese elettorali sono pur sempre la conquista di posizioni di potere. Nel caso delle urne europee, stante il peso limitato che ha quel parlamento, il più si risolve, almeno in prima battuta, nella designazione del presidente della Commissione europea. Da come si chiuderà quella partita dipendono poi in piccola parte gli equilibri nell’intera commissione (ma in questo caso i singoli membri vengono principalmente designati dagli stati, semmai c’è qualche spazio per negoziare su vicepresidenti e altre cariche), ma soprattutto dipenderà la presidenza dell’europarlamento. Non sono posizioni di scarso significato e questo spiega i calcoli e le tattiche che si stanno mettendo in campo anche in Italia.
Ridotta in termini semplici la questione è se la precedente maggioranza che faceva perno sull’accordo PPE+PSE sia riproponibile dopo i risultati delle urne del giugno 2024. Nell’elezione di Ursula von der Leyen (del PPE) già si era dovuti ricorrere ad una maggioranza più ampia includendo qualche frangia tipo M5S, per cui si era favoleggiato su una “maggioranza Ursula” anche per il nostro paese. In verità non ci sembra che poi quella maggioranza abbia prodotto gran che, salvo l’accordo di alternanza alla presidenza del parlamento, prima Sassoli (PSE), poi Metsola (PPE) nonché qualche frattaglia per i partiti minori.
Oggi si sta cercando di presentare come possibile un futuro deciso cambio di quadro politico, in quanto il gruppo dei socialisti sarebbe dato in calo più o meno consistente, i popolari sono accreditati al massimo di una certa tenuta e dunque potrebbero optare per un accordo col gruppo dei conservatori. Si tratta di un calcolo abbastanza azzardato, visto che per la convalida del presidente della Commissione occorre la maggioranza assoluta (metà più uno dei membri del parlamento) e ben pochi pensano che possano raggiungerla da soli PPE + Conservatori. Semmai occorrerà mettere insieme anche il gruppo dei liberali, ma forse anche questo può non essere sufficiente e allora magari si potrebbero ripescare un po’ di socialisti.
Come si riverbera questa faccenda, abbastanza da alchimisti medievali più che da politici, sulla politica di casa nostra? La questione riguarda il ruolo che potrà giocare Giorgia Meloni come riconfermata presidente del gruppo dei conservatori europei. Per la attuale coalizione di governo c’è il problema che FI fa parte del PPE, ma soprattutto che la Lega siede in un altro gruppo, Identità e Democrazia, assieme al partito della Le Pen e ai tedeschi di AfD: detto in buona sostanza un gruppo della destra molto demagogica e assai poco democratica.
Una adesione dei conservatori alla nuova maggioranza che reggerà la UE aumenterebbe il peso della Meloni e di FdI, creerebbe qualche piccolo spazio per FI che potrebbe presentarsi come la forza che ha aiutato l’ingresso di FdI nel salotto buono (Tajani ha una buona posizione nel PPE) e lascerebbe Salvini in una posizione del tutto marginale. Questo, è banale dirlo, non aiuterebbe le fortune della Lega che già non riesce a risollevarsi dalla crisi in cui è precipitata per le brillanti trovate del suo cosiddetto “Capitano”.
Ecco allora che il leader leghista prova a giocare d’anticipo e dichiara che la destra italiana deve essere compatta nel suo gioco europeo rifiutando a priori qualsiasi accordo coi socialisti. Ciò significherebbe in pratica rendere impossibile una crescita di ruolo della Meloni nel mondo UE, perché da un lato è difficile immaginare una maggioranza PPE-Conservatori senza qualche accordo con i socialisti, e dall’altro lo è pensare che il PPE e i suoi alleati possano accogliere nella compagine la Lega salviniana (neppure, crediamo, se questa abbandonasse il rapporto con Le Pen e soci, cosa che del resto il leader non vuol fare e infatti festeggia a Roma l’amicizia con lei). Non si tratta però solo di una questione di tattiche nel parlamento di Bruxelles, quanto piuttosto del contrasto alla svolta in senso “istituzionale” (moderata non ci sembra il termine adatto) che Meloni di fatto è portata ad imprimere al suo partito consolidato al governo. Il successo di questa svolta ha già tolto un bel po’ di voti alla Lega e altri ne toglierà se la strategia della attuale premier avrà successo. Ecco la ragione per cui Salvini riprende ad agitare la bandierina dell’identità di destra, evocando il rigetto di accordi coi socialisti e rilanciando un po’ della solita demagogia leghista (immigrati e quant’altro).
In tutto questo FI, ormai costretta dopo la scomparsa di Berlusconi a fare i conti con la sua natura di medio partito, deve decidersi se continuare a fare la “mezza destra” in supporto alla svolta della Meloni o ritrovare una dimensione “centrista” che però non sa in cosa far consistere.
(da mentepolitica.it)
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