Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Berlusconi, i giudici matti
e il giornalismo prima dei social

di Franco Fregni

Sono stati celebrati in questi giorni i trent’anni dalla “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e sono trascorsi poco più di vent’anni dalla celebre intervista sui “giudici matti” rilasciata dal Cavaliere a Boris Johnson per The Spectator e a Nicholas Farrell per La Voce di Romagna. All’epoca dei fatti (Agosto-Settembre 2003) ero direttore de La Voce e quindi sono uno dei protagonisti di quella vicenda, se non altro perché mi presi la responsabilità di pubblicarla, oltre che impaginarla e in parte di tradurla dall’inglese o dall’italo inglese di Nicholas.

Sgomberiamo subito il campo da illazioni e ricostruzioni fantasiose. Nei nastri registrati, che naturalmente io ascoltai, Berlusconi parlava nella nostra lingua e le sue risposte erano chiare.

Questo è il racconto di quei giorni.

 

Nicholas Farrell era diventato collaboratore de “La Voce” poco dopo l’apertura della sede di Forlì - “La Voce” aveva la redazione principale a Rimini e in seguito aprì redazioni a Forlì, Cesena, Cesenatico, San Marino, Ravenna, Faenza e Imola. 

Il rapporto con Farrell nacque grazie ad una felice intuizione della caporedattrice di Forlì Fausta Mannarino che mi chiamò dicendomi: “A Predappio vive un giornalista inglese che sta scrivendo un libro su Mussolini. Si è innamorato di una ragazza italiana, vuole vivere qui, è simpatico, scrive molto bene, è un personaggio, viene a conoscerlo”. In effetti Farrell era/è un personaggio: Borsalino nero a falda larga d’inverno, “panama” d’estate, alto alto, magro magro, vestito con falsa noncuranza, frutto di somma ricercatezza che sfociava in un dandismo al contrario. Viveva al piano di sopra di un’osteria di Predappio Alta in cui faceva coppia fissa con il sindaco “comunista” di allora, Giorgio Frassineti. Gli incontri con Farrell, soprattutto quelli notturni, erano ad altissimo tasso alcolico e sfociavano nei celebri discorsi del “terzo litro”. Una cosa però era chiara: Farrell era/è un fuoriclasse. Laureato in storia a Cambridge, celebre giornalista per il Sunday Telegraph, con una “boheme” estrema vissuta a Parigi grazie all’anticipo su un libro relativo alla morte di Lady Diana, Farrell mollò tutto dopo aver assistito da una barca ad un tramonto al largo di un’isola greca in cui scoprì l’aspetto malinconico del senso panico della vita che alcuni chiamano depressione. Prese a girare brevemente tra università italiane come lettore d’inglese e quindi decise di scrivere un libro su Mussolini, con tesi all’opposto della “vulgata”, ma basato su idee nutrite da solidi studi a cominciare dall’imprescindibile conoscenza della somma opera di Renzo De Felice, perché tutti quelli che scrivono di Mussolini non fanno che parafrasare De Felice che aveva già detto tutto. 

Farrell, di origine irlandese, era/è fa parte di una famiglia di umili origini che è diventata solida borghesia. Padre dentista, fratello prima “barrister” poi “King’s counsel” (gli avvocati di più alto rango) ed era/è attratto soprattutto da due personaggi: il Duce e il Che. Dualismo che dice molto della sua personalità, della sua opera e dell’origine degli estremismi politici. 

Il rapporto tra Farrell e Frassineti mi ricordavano il rapporto tra Nicolino Bombacci e Mussolini. Bombacci era nato a Civitella di Romagna, 20 km da Predappio, pressoché coetaneo di Mussolini con cui condivise gli anni eroici del socialismo. Bombacci fu poi uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano nel 1921 a Livorno e quindi, dopo tante vicissitudini, decise di morire a fianco del “compagno” Benito a Dongo nel delirio finale della Repubblica sociale italiana. 

Farrell iniziò a scrivere per “La Voce” con un successo travolgente. I primi articoli sui ciclisti (nemici giurati di Nick che odiava i loro completi aderenti) e la cucina romagnola (straordinaria quando rispetta la tradizione, deleteria nelle forme moderne) scatenarono reazioni appassionate. La posta  della redazione esplose, i dibattiti era infuocati, il divertimento era assicurato. Poi arrivarono i pezzi sui partigiani (per Farrell ininfluenti dal punto di vista militare per la Liberazione d’Italia e pericolosi perché sostenitori della dittatura totalitaria comunista) e il successo fu ancora più travolgente. Anche chi contestava queste tesi leggeva, commentava e scriveva al giornale, protestando o approvando. Nel dibattito si cimenterano anche grandi firme nazionali. Il giornale, descritto dai più come di centrodestra, in realtà era un classico giornale alternativo di contropotere; il potere in Romagna era il Partito Democratico; i giornalisti devono “fare le pulci” al potere; quindi il nemico era il partito degli affari, cioè il Pd (e la varie sigle che ha avuto). Il quotidiano era completamente divisivo ma incredibilmente attrattivo. Numericamente avevano più lettori di “sinistra” che di “destra” (per quel che può valere questa orribile semplificazione). Il dato di fatto è che quando presi il giornale questo vendeva 800 copie; quando me ne andai ne vendeva 10mila, con picchi oltre le ventimila copie in estate. Fu un periodo entusiasmante e gli articoli di Farrell contribuirono in maniera importante a quelle che furono campagne stampa, inchieste, opinioni (con l’arrivo di firme e di giovani che poi diventarono firme, alcuni li vedete oggi in tv) che crearono attorno al giornale un clima di entusiamo sincero, non solo tra tutte le persone “alternative” della Romagna, ma anche tra tanti “comunisti”. Naturalmente c’era meno entusiamo tra i detentori del potere e le nomenklature dei partiti, anche quelli del centrodestra che in Romagna contano come il due di coppe quando è briscola bastoni, ma che ogni tanto rivendicavano presunti diritti e ricevevano un mio “fanculo”, in modo tale che alla prima telefonata non ne seguivano altre di disturbo.

Dopo questo primo periodo Farrell se ne uscì con quella che pareva solo un suggestione: Berlusconi sembrava disposto a concedere un’intervista a lui e a Boris Johnson, all’epoca dei fatti già deputato e direttore (editor) di “The Spectator”, una delle più antiche riviste del mondo, baluardo del pensiero Tory. Come e quando questo sarebbe avvenuto veniva discusso tra gli inglesi e il team di Berlusconi all’epoca guidato da Valentino Valentini e Paolo Bonaiuti. 

Berlusconi era stata conquistato da alcuni articoli su “The Spectator” e “La Voce” a lui favorevoli scritti da Nicholas che lo difendeva a spada tratta dagli assalti dei “comunisti”. Nel pantheon farrelliano assieme al “figlio del fabbro” e a Ernesto Guevara era entrato anche Il Cavaliere.

Farrell e Johnson si conoscevano da tempo avendo lavorato su giornali “fratelli” (The Daily Telegraph e the Sunday Telegraph) e su temi simili (in particolare quelle che in Inghilterra consideravano le eurofollie). Ma erano anche molto diversi: uno di Cambridge (Nick), l’altro di Oxford (Johnson), uno malinconico e sincero (Nick) l’altro arrivista con un bel pelo sullo stomaco (Johnson), entrambi animati da solida cultura e grandi passioni. Tra l’altro scoprii allora che Boris Johnson per gli amici era “Al” (il suo primo nome è Alexander). Niente a che vedere con il “BoJo” con cui sarebbe stato conosciuto al mondo prima come sindaco di Londra e poi come premier del Regno Unito. E ricordo che nei discorsi degli “inglesi”, cioè i giornalisti d’oltremanica che venivano trovare Farrelli in Italia (tra cui il “mitico” Richard Addis, ex frate e recordman di trasferimenti con incarichi prestigiosi tra i principali quotidiani di lingua inglese tra le due parti dell’Atlantico), spuntavano sempre altri nomi: uno era quello l’ammiratissima Mary Wakefield, nobildonna (è discendende del Conte Grey, quello del te, appunto Earl Grey…) editorialista e redattrice di “The Spectator”, più tardi sposa di Dominic Cummings, geniale e terribile artefice della campagna del “Leave”, spin doctor con alterne fortune di Johnson, e teorizzatore degli slogan al massimo di tre parole che hanno fatto la fortuna della Brexit e dello stesso Johnson; l’altro era quello dell’odiatissimo Alastair Campbell, spin doctor di Tony Blair. Campbell era stato un formidabile uomo macchina e titolista dei tabloid, nei giorni del tragico incidente a Lady Diana s’inventò lo slogan “the people’s princess”, mettendo in forte crisi la monarchia. Campbell è di un anno più vecchio di Farrell e ha frequentato come lui il Gonville and Caius College di Cambridge. Il fatto che fosse l’anziano, nella rigida e bullistica disciplina dei college inglesi, deve aver contribuito all’avversione di Farrell per i “daddy della sinistra”.

 

Tornando all’intervista, la situazione si sbloccò in piena estate: l’incontro sarebbe stato nei giorni a cavallo di Ferragosto in Sardegna, Johnson sarebbe sceso dall’Inghilterra con famiglia al seguito, Nick sopraggiungeva dalla Romagna armato di panana e completo “verde acqua”. 

Come erano vestiti Berlusconi, gli ospiti inglesi, come sono andate quella giornate, cosa si è bevuto, lo avete letto in tutti i giornali del mondo. Per mesi, per anni si è discusso e si discute ancora oggi di quell’intervista, dell’ambientazione, del contenuto, del significato che ha avuto per Berlusconi e soprattutto del fatto che rappresentò il trampolino di lancio che la carriera di Johnson. Insomma una vera e propria epopea, basti pensare che ancora oggi escono articoli su quei giorni. Di fatto in quell’intervista Berlusconi spiegò per filo e per segno quella che era la sua “teoria” sui magistrati e aprì la “guerra totale” al potere giudiziario che caratterizzò gli anni seguenti. Solo un esempio di quelle frasi di Berlusconi: "Questi giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perchè lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”.

Per me il problema era soprattutto pratico. 

Primo: a chi era stata data l’intervista? “La Voce” poteva pubblicarla? Nicholas non aveva dubbi a proposito, mi spiegò che c’era un accordo chiaro con Johnson. La notizia andava in contemporanea su The Spectator e su La Voce. Non dovevamo però farlo in anticipo, cosa possibile essendo La Voce un quotidiano e The Spectator un settimale.

Secondo: Farrell scrive in un inglese fantastico ma in un italiano zoppicante, anche perché cercava di ricalcare il suo stile originale (In Uk lo stile, soprattutto nei settimanali, è gran parte del valore dell’articolo) e io ad ogni suo articolo, che arrivava sempre dopo le dieci di sera dovevo impegnarmi in una durissima opera di traduzione/revisione che mi impegnava per ore con chiusure del giornale che spesso superavano l’una di notte. In questo caso eravamo di fronte ad un’intervista lunghissima, che fu pubblicata su più pagine e in più giornate (come si dice in Emilia “del maiale non si getta nulla”). La revisione fu un impegno totalizzante di intere giornate.

Terzo: le cose che pronuciava Berlusconi erano di enorme importanza ed era evidente che avrebbero scatenato un vero e proprio affare di stato, con conseguenze internazionali. Era una faccenda enorme. Gli “inglesi” avevano ben capito le implicazioni delle dichiarazioni sulla politica internazionale di Berlusconi, ma la parte sui “giudici matti” a loro sembravano solo simpatiche battute. Cercai di spiegare a Farrell che quello sarebbe stato il vero casino, e gli dissi: “Nick, qui scoppia la guerra civile” (cosa che poi avvenne, naturalmente a parole), quindi dovevo essere sicuro di una cosa: c’era la registrazione? C’era. La ascoltai e a quel punto c’era una sola cosa da fare: “publish and be damned”.

 

La Voce era un giornale vecchio stile che chiudeva tardissimo la notte per raccogliere tutte le notizie possibili, spesso rischiando di non arrivare in edicola, visto che veniva stampata prima a Perugia e poi a Cremona. Le chiusure erano la dannazione di tutta la “macchina”, io facevo la voce grossa con la redazione, ma in realtà me ne sbattevo, volevo tutto quello che si poteva mettere in pagina e il resto ciccia. Quando andava bene il nucleo centrale della redazione finiva di lavorare tra la mezzanotte e mezza e l’una di notte (si iniziava alle 10 del mattino). La notte della tragica morte del povero Marco Pantani (la notizia arrivò verso le 10 di sera) finimmo alle quattro del mattino con tutta la redazione sotto il residence teatro del dramma. 

Quindi, ben oltre la mezzanotte. un’allegra compagnia di norma andava a mangiare restando poi diverse ore a gozzovigliare tra bevute e carte se non c’era di meglio da fare. La giornata terminava in genere all’alba. Il mio risveglio avveniva poco dopo, se la giornata era tranquilla non c’erano telefonate prima delle 10 quando arrivavo in redazione, se c’era qualcosa di particolarmente frizzante le telefonate iniziavano ad arrivare tra le 7,30 e le 8. La mattina di Berlusconi iniziarono all’alba, non avevo neppure chiuso gli occhi.

In gergo il nostro mondo lo chiamiamo “il circo”. Il circo quella mattina cominciò a suonare la grancassa per attirare spettatori all’alba e proseguì per mesi. Nessuna poteva credere che Berlusconi avesse concesso quell’intervista alla più antica e prestigiosa rivista inglese e allo stesso tempo a un misconosciuto giornale locale italiano appena nato. Ma era così. Iniziarono a chiamare testate nazionali e internazionali, ricevevo inviti da ogni parte e naturalmente la stessa cosa moltiplicata per enne volte succedeva a Nicholas, posso solo immaginare cosa stesse succedendo a Johnson. Insomma stavo vivendo il warholiano “quarto d’ora di celebrità”. 

Ero euforico, ma allo stesso tempo arrabbiato perché tutti pensavano che ci fosse qualcosa di oscuro dietro il fatto che anche un giornaletto di provincia avesse pubblicato una notizia di questo rilievo. Io al contrario ritenevo di realizzare un grande giornale e non sopportavo questo retropensiero svilente, nascosto da tanti complimenti ipocriti. Decisi di non entrare al circo. Comincia a rifiutare le interviste spiegando che non avevo nulla da dire, che avevo semplicemente pubblicato una notizia vera, che c’erano le registrazioni ecc. ecc. Scrissi un articolo su questo aspetto. Ad un amico che mi chiedeva un’intervista per un’emittente nazionale non potevo dire di no, ma in trasmissione, per fare lo “sborone” come si dice a Rimini, mi limitai a balbettare: “Uno dei miei idoli è John Ford. In un’assemblea del sindacato in cui gli si chiedeva delle sue opinioni politiche rispose semplicemente: ‘I’m John Ford, i make westerns”. Parafrasando posso dirvi “Sono Franco Fregni, faccio giornali”, calò il gelo e terminò l’intervista. In realtà John Ford non disse esattamente quelle parole, io invece le pronunciai, interrompendo il terribile quarto d’ora warholiano. 

Mi dispiaque il fatto che i miei amici di “sinistra” (io, come direbbe Farrell, sono stato cresciuto giornalisticamente come un “daddy della sinistra”), non mi chiamassero più. Il distacco era iniziato quando pubblicai sulla testata del giornale, dopo l’11 settembre, la bandiera americana, inglese e israeliana. Per me restavano e restano amici. Me ne feci una ragione e pensai di essere la reincarnazione di Camus e Orwell che doveva mostrare agli altri la realtà della “fattoria degli animali”. 

Negli stessi giorni ricevetti alcune sontuose offerte di lavoro che rifiutai nella stupida convinzione di riuscire a fare di un piccolo giornale di provincia il miglior giornale del mondo (ma qualche volta riuscirono cose molto buone), da Berlusconi e dal suo entourage nessun telefonata, nessuna recriminazione, nessuna negazione del contenuto dell’intervista, nessuna minaccia. Ci fu un simpatico messaggino di Bonaiuti, ma di quelli banali che si mandano da collega a collega. Lo stesso Nicholas non ricevette alcuna pressione e si godette senza problema la celebrità.

Cosa resta di quei giorni? Nel 2004 sono nati i social, si stavano diffondendo gli smartphone e il mondo è cambiato; i giornali cartacei sono rimasti come genere di boutique, anche per colpa dei giornalisti; La Voce non c’è più per colpa dei “mercanti nel tempio” che mi cacciarono prima che io riuscissi a cacciare loro; ancora si parla di “giudici matti” (del resto chi fa il giudice o l’arbitro un po’ matto deve esserlo per scegliere mestieri così difficili…); il povero Silvio ci ha lasciato con grande rimpianto di tutti, compresi gli avversari politici; “Al” Johnson, che pensa di essere Wiston Churchill redivivo, sta preparando la seconda parte della sua carriera politica, del resto Churchill ritornò anni dopo il fallimento di Gallipoli, Johnson tornerà dopo il disastro Covid; Nicholas vive nella campagna dei lidi ravennati circondato dalla sua vastissima e bellissima tribù, L’ultima volta che l’ho sentito era tornato a Londra per seguire il 98enne padre ammalato e bestemmiava contro le badanti sudafricane che in quella zona di Londra guadagnano più di un direttore di banca in Italia e sono più cattive di un malinois addestrato. Io, come John Ford, continuo a fare western.

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