Agenzia Giornalistica
direttore Paolo Pagliaro

Pace e guerra:
tornare a Kant

di Marcello Bianchi

I drammatici conflitti in corso, scatenati dall’aggressione della Russia all’Ucraina e dall’attacco terroristico di Hamas a Israele, stanno facendo piazza pulita dell’illusione che con la caduta del muro di Berlino e la conseguente fine della Guerra Fredda si potesse aprire la strada verso quella pace perpetua individuata da Kant, non come utopia emotiva, ma come esito del dominio della ragione nel suo saggio “Per la pace perpetua” del 1795.  Mai come ora, nel periodo successivo al fatidico 1989, le guerre in atto si rivelano come asse portante della storia contemporanea. Queste non possono quindi essere considerate come “scosse di assestamento” di un percorso verso quel mondo cosmopolita e cooperativo che, secondo Kant, doveva portare a un equilibrio stabile di pace globale.

Di fronte a questo stato delle cose, il tema della pace ritorna quindi più che mai attuale e, piuttosto che impantanarsi in sterili contrapposizioni tra falchi e colombe, può essere utile “tornare a Kant” e ai fondamenti del suo ragionare sull’obiettivo della pace.
Per Kant, proclamare l’impossibilità della guerra è innanzitutto un dovere intellettuale e non un’istanza del cuore. Quindi la pace non può che essere il risultato di una costruzione razionale, che ne individui i presupposti e i conseguenti sviluppi. Presupposti e sviluppi che sono efficacemente sintetizzati da Bobbio: “Diritti dell’uomo, democrazia e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico: senza diritti dell’uomo riconosciuti e protetti non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti.”
È del tutto evidente, e intimamente coerente con questa visione, che alla base degli attuali conflitti ci sono realtà dove i diritti dell’uomo e la democrazia sono del tutto assenti e mancano quindi i presupposti necessari per l’avvio di un percorso di pace che non sia una mera tregua. L’articolo preliminare per la pace perpetua di Kant chiarisce che “Un trattato di pace non può valere come tale se viene fatto con la segreta riserva di materia per una futura guerra”. E gli stati che calpestano i diritti umani disprezzano la democrazia e perseguono obiettivi di dominio tramite aggressioni ai vicini non possono che mantenere una riserva tutt’altro che segreta per future guerre.
Notava Salvatore Veca nella prefazione alla ripubblicazione del trattato di Kant a duecento anni dalla sua prima pubblicazione: “L’obiettivo della pace perpetua, se è già una sorta di fine cui è maledettamente difficile avvicinarsi, è reso necessariamente impossibile dal vigere di assetti o istituzioni politiche ingiuste entro gli stati”.
Questo non vuol dire, ovviamente, che non ci si debba sforzare per contenere gli effetti delle azioni di guerra e per cercare di arrestare le fasi belligeranti. Allo stesso tempo, non consente però di illudersi che siano a portata di mano soluzioni realistiche ai problemi che sono alla radice dei conflitti.
Al di là dei facili slogan costantemente invocati dalle colombe (“sicurezza reciproca” tra Russia e Ucraina o “due popoli due stati” per Israele e Palestina), in realtà i conflitti sono costantemente alimentati costante alimentazione proprio dall’assenza, nelle realtà aggressive, delle precondizioni (tutela dei diritti dell’uomo e democrazia) per una pace duratura.
I veri sforzi per la pace dovrebbero pertanto essere volti a favorire la creazione di queste precondizioni in quelle realtà e, nella prospettiva indicata da Kant per la pace perpetua, in tutte le aree del mondo dove queste mancano. Se l’esportazione della democrazia si è rivelata, nei tentativi messi in atto finora, un’esperienza generalmente fallimentare (ma non si devono dimenticare i successi conseguiti nei paesi dell’asse Roma-Tokyo-Berlino del secondo dopoguerra), esistono spazi per incoraggiare un percorso più prudente che incoraggi non tanto, e sicuramente non subito, un’improbabile rivoluzione democratica, quanto, almeno, un’evoluzione verso una condizione di “società ben ordinata” nel senso definito da Rawls: una società che, pur in assenza delle libertà individuali tipiche delle democrazie occidentali, non abbia obiettivi espansionistici, goda di un ordinamento giuridico e di un regime politico ritenuto legittimo dai governati e non violi i diritti umani.  
Un’agenda politica ambiziosa e che richiede tempi lunghi, per la quale sarebbero necessarie istituzioni internazionali autorevoli ed efficaci, non condizionate, come l’ONU, dal potere di veto e dalla forza dei numeri di paesi restii ad accettare quell’evoluzione in casa propria e a sostenerla negli altri.

Di qui la necessità di un ruolo propulsore dell’Occidente che, consapevole ma non frustrato dalle contraddizioni e dagli squilibri creati dell’egemonia economica e geo-politica esercitata negli ultimi due secoli, non desista dal promuovere per l’intera umanità quel primato della ragione che ha consentito di definire e ha spinto a perseguire i principi di giustizia, tolleranza e valorizzazione della persona che sono alla base di una qualsiasi prospettiva di pace.
Un Occidente che dovrebbe rinsaldare la propria unità, evitando la tentazione di un’autosufficienza che periodicamente emerge da entrambi i lati dell’Atlantico, e che dovrebbe recuperare fiducia nel proprio ruolo, certamente incompiuto ma non per questo meno decisivo, di “categoria universale dell’incivilimento umano”, come lo definisce Aldo Schiavone nel libro che apre una nuova collana di studi dedicata emblematicamente al destino dell’occidente (Occidente, Il Mulino, 2022).  

(da isril.it )

(© 9Colonne - citare la fonte)