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Quella vecchia storia dell’ordine di nascita (che la scienza non conferma)

C'è davvero una base scientifica nell'idea che l’ordine di nascita influenzi la nostra personalità? Come accade spesso in psicologia, la risposta è più complessa e sfumata di quanto suggeriscano i luoghi comuni


Chi ha fratelli o sorelle ha probabilmente sentito almeno una volta battute come “sei proprio il classico figlio di mezzo” o “tipico comportamento da primogenito”. Ma c’è davvero qualcosa di scientifico dietro l’idea che l’ordine in cui siamo nati influenzi la nostra personalità? La risposta, come spesso accade nella psicologia, è più sfumata di quanto i luoghi comuni vogliano farci credere. Che i primogeniti siano più responsabili o che gli ultimogeniti siano eterni ribelli è un concetto che non nasce certo con la psicologia moderna. In molte società antiche, il primo figlio aveva un ruolo di prestigio e una carica simbolica: basti pensare alle cerimonie in Micronesia per le madri primipare o al “pidyon haben” ebraico, il riscatto simbolico del primogenito. Anche nelle monarchie, la posizione in famiglia determinava la successione al trono e l’accesso ai beni. Ma è con lo psicologo austriaco Alfred Adler, agli inizi del Novecento, che la teoria dell’ordine di nascita entra nella psicologia vera e propria. Lo psicoterapeuta austriaco riteneva che la “costellazione familiare” influenzasse profondamente il carattere: i primogeniti, spodestati dall’arrivo di fratelli minori, tenderebbero a essere rigidi e conservatori; i secondogeniti, più competitivi e in cerca di attenzione; i più piccoli, viziati e talvolta pigri. E i figli unici? In lotta con il padre e troppo legati alla madre. Una visione affascinante, se non altro per la sua capacità di incasellare comportamenti in tipologie facili da ricordare. Sulla scia delle intuizioni di Adler, molti studiosi hanno cercato conferme empiriche. Negli anni ’90 e 2000, lo storico della scienza Frank Sulloway ha provato a dimostrare che l’ordine di nascita influisce anche sull’orientamento intellettuale: primogeniti più ortodossi, fratelli minori più innovativi. Secondo lui, le idee rivoluzionarie sarebbero più facilmente abbracciate dai nati più tardi. Ma è nella valutazione dei cosiddetti “Big Five” della personalità — estroversione, gradevolezza, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura mentale — che la teoria traballa. Studi recenti, molto più ampi e rigorosi, hanno smontato il legame tra l’ordine di nascita e questi tratti fondamentali. Uno di questi è stato condotto da Rodica Damian, professoressa di psicologia all’Università di Houston. Analizzando i dati di oltre 440.000 studenti americani, il suo team ha riscontrato effetti praticamente nulli dell’ordine di nascita sulla personalità, dopo aver escluso variabili come sesso, età e contesto socioeconomico. Risultati simili emergono da uno studio internazionale che ha coinvolto campioni di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania: nessuna correlazione solida tra la posizione nella famiglia e i tratti di personalità. Con una piccola eccezione: i primogeniti, in media, ottengono punteggi leggermente più alti nei test di intelligenza verbale. Ma attenzione, parliamo di una differenza di un punto di QI, che può facilmente dipendere dall’ambiente più adulto in cui crescono, non da chissà quale vantaggio genetico. Se la scienza ha ridimensionato (quando non smontato) la teoria, perché continuiamo a crederci così tanto? Secondo Damian, è una “teoria zombie”: anche se i dati la smentiscono, continua a vivere nella cultura popolare. E non è difficile capirne il motivo. Tutti abbiamo un ordine di nascita, quindi tutti possiamo relazionarci al concetto e vederne esempi intorno a noi. Ma quello che sembra una prova lampante è spesso solo una coincidenza di sviluppo: i fratelli più grandi appaiono più maturi perché *sono* più grandi, non perché sono nati per primi. La trappola è semplice: vediamo le differenze tra fratelli nel presente, ma non possiamo confrontarli alla stessa età. E così finiamo per attribuire alla posizione in famiglia quello che in realtà è frutto del tempo e dell’ambiente. Le ricerche più attuali puntano altrove per spiegare come si forma la personalità. Circa il 40% sembra dipendere dai geni. Il resto? Una miscela complessa e ancora non del tutto compresa di esperienze, contesto familiare, cultura e — forse — narrazioni personali: le storie che ci raccontiamo su chi siamo e cosa abbiamo vissuto. Proprio queste narrazioni sono oggi al centro delle ricerche di Damian. Per lei, scavare nella costruzione del sé attraverso le esperienze soggettive può rivelare più di qualsiasi teoria sull’ordine di nascita.

(© 9Colonne - citare la fonte)