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Conflitto o partecipazione
un falso dilemma

Conflitto o partecipazione <br> un falso dilemma

di Oronzo Mazzotta*

Al recente Congresso dalla Cisl, la segretaria Daniela Fumarola ha rivendicato con orgoglio l’approvazione da parte del Parlamento della legge sulla partecipazione; per contro il segretario della Cgil ha rilanciato sul salario minimo e la legge sulla rappresentanza. Dal canto suo la premier non ha nascosto le proprie simpatie nei confronti della confederazione di ispirazione cattolica, e questo nella logica del divide et impera, considerando la Cgil una gamba (o forse qualcosa di più) dell’opposizione.

Non intendo entrare nelle dispute squisitamente politologiche; mi sembra invece opportuno soffermarmi sulle parole magiche che sono state evocate in molti degli interventi (sicuramente quelli di maggior rilievo politico): conflitto e partecipazione. Pur riconoscendosi (sia da parte della segretaria che da parte della premier) che non vi è contrapposizione fra i due modi di fare sindacato, non si è mancato di stigmatizzare negativamente il conflitto, tacciato di massimalismo e distruttività e tale comunque da riportare la dialettica fra le parti sociali a stagioni ormai tramontate da tempo.

Non vorrei peccare di ingenuità se affermo che le parole non debbano essere brandite come armi e messe in contrapposizioni artificiose. Al fondo – ecco l’ingenuità – c’è una questione lessicale anzitutto. Il termine ‘conflitto’ è – va da sé – espressione polisenso e può evocare, come vediamo tutti i giorni con i nostri occhi, quanto accade in Ucraina o in Medio-oriente, ma anche le difficoltà di un matrimonio (conflitto coniugale), come ogni altra specie di contrapposizione. Chi ci può dare una mano raffreddando la temperatura dello scambio di posizioni è – guarda caso – il diritto, quella invenzione esclusivamente umana che nasce proprio per esorcizzare i conflitti e sottrarre la convivenza fra gli uomini al dominio della forza bruta.

Orbene nel linguaggio giuridico l’espressione ricorre spesso e ricorre per esprimere la contrapposizione di interessi fra le parti di un contratto (un qualsiasi contratto): fra il venditore e il compratore di un immobile, fra chi acquista beni di consumo ed il produttore e, per quel che ci interessa, fra datore e lavoratore (o sindacato che ne rappresenta gli interessi a livello collettivo).
Sul punto ha qualcosa da dire la Carta costituzionale, che privilegia la tutela del lavoro partendo dal presupposto che un lavoratore isolato nel mercato sarebbe alla mercé dell’imprenditore se non potesse godere della protezione sindacale, se non potesse cioè contrapporre alla forza economica del datore (che, come si diceva un tempo, è di per sé “coalizione”) la forza del gruppo. Ed è la stessa Carta a conferire ai lavoratori il diritto di astenersi dal lavoro per dare maggior forza alle rivendicazioni nei confronti della controparte.

Al centro del sistema, per conseguire il risultato di una equa ripartizione della ricchezza fra le parti del rapporto di lavoro, vi è la libertà sindacale e la libertà di contrattazione collettiva (art. 39), secondo uno schema – ed è questo il punto – che giustamente pretendeva, per assicurare la vincolatività dei contratti collettivi (cioè l’efficacia nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti ad una determinata categoria), che le associazioni sindacali costituissero una rappresentanza unitaria.
Questo schema (previsto dalla seconda parte dell’art. 39), come sappiamo, non è mai stato realizzato, ma ciononostante è indicativo dell’importanza e del valore dell’unità sindacale, pur in un contesto di contrapposizione (non di conflitto) di interessi.

Ma la Costituzione non si limita a prefigurare la sola contrattazione come strumento di una ordinata convivenza fra le parti sociali, ma offre a imprese e lavoratori la possibilità di cooperare in modo più stretto, garantendo “il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende” (art. 46). Sappiamo che il dibattito sull’attuazione della norma è stato ben presto abbandonato sotto la spinta sia delle imprese, refrattarie a forme di coinvolgimento dei sindacati nelle scelte decisionali, sia degli stessi sindacati, restii a farsi coinvolgere. Ora la legge sulla partecipazione, approvata su proposta della Cisl, intende dare attuazione a quel negletto principio costituzionale, che altrove (vedi la Germania) costituisce invece uno dei pilastri dello stato sociale. A scorrerla anche rapidamente ci si rende però conto che si tratta di un programma molto aperto che deve passare attraverso la buona volontà delle imprese, che devono attrezzare la struttura formale dei centri di comando con la previsione della partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori e non è affatto detto che le imprese abbiano interesse a farlo.

Ciò detto sarebbe facile liberarsi della novità legislativa con una scrollata di spalle considerandola come uno dei tanti “libri dei sogni” che hanno costellato la nostra sfortunata Repubblica. Tutto giusto, ma il punto che mi interessa qui sottolineare è un altro e si riannoda alla falsa contrapposizione fra conflitto (contratto) e partecipazione. Orbene è la stessa legge a dirci che la sua attivazione deve necessariamente passare da una serie di scelte che devono essere fatte – guarda caso – proprio dal contratto collettivo. E dunque la dimensione contrattuale/conflittuale ritorna anche nel cuore del paradigma della partecipazione. E vi ritorna insieme alla consapevolezza che senza un patto di unità sindacale non è realizzabile, non solo una seria rappresentanza negoziale dei lavoratori, ma nemmeno la partecipazione dei sindacati alla gestione delle imprese.

Come si vede la dimensione contrattuale/conflittuale e quella partecipativa, lungi dall’essere agli antipodi, coincidono nella comune esigenza del dialogo fra le parti, un dialogo che pretende unità di intenti per ciascuna delle coalizioni contrapposte.

 

  • Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa

 

 

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