“Certo che ho rifiutato di firmare il modulo di espulsione”, “tutto questo non è nulla rispetto all'umiliazione quotidiana che i palestinesi subiscono da anni. Ma ormai si è rotto l'incantesimo del quale siamo un po' tutti corresponsabili, l'impunità di Israele. Il punto non è che sia successo a un sacerdote, succede ben di peggio. Ancora una volta, però, non è possibile che a Israele sia stato sempre concesso tutto, per paura. La paura d'essere sospettati di antisemitismo, che è una cosa orribile ma non c'entra. Piuttosto, c'entra il comportamento di uno Stato, di un governo, l'intenzione genocida che si mostra a Gaza”. Così don Nandino Capovilla, in una intervista al Corriere della Sera, dopo il rientro nella sua parrocchia di Marghera. Lunedì era atterrato a Tel Aviv per un pellegrinaggio di Pax Christi tra Betlemme e la Cisgiordania, ma l'ingresso in Israele gli è stato rifiutato, ha passato sette ore sorvegliato in una stanza dell'aeroporto ed è stato fatto rientrare in Italia nella notte attraverso Cipro, Strasburgo, Francoforte e infine Venezia. Al Marco Polo è stato accolto da applausi… “Sono arrivati gli scout, avevamo appena fatto un campo e avviato un gemellaggio con gli scout di Taybeh, in Cisgiordania. Ai ragazzi palestinesi avrei voluto donare una bandiera con le firme dei nostri ragazzi, l'avevo portata con me in viaggio”. Ma a Tel Aviv si sono accorti che era un sacerdote? “È stata la prima cosa che ho detto, ero pure in clergyman. Mentre ero lì, bloccato ai controlli, ho visto passare l'arcivescovo Giovanni Ricchiuti, il presidente di Pax Christi. Ci siamo guardati ma eravamo distanti. Prima che mi sequestrassero il cellulare, sono riuscito a chiamarlo e spiegargli cos'era successo”. Le hanno detto perché? “No. Immagino possa essere per il mio impegno, per il libro Sotto il cielo di Gaza. Ho chiesto spiegazioni e mi continuavano a ripetere il ritornello del pericolo per la sicurezza dello Stato” e “mi hanno portato in un box chiuso per altri controlli e infine in una piccola stanza, una sorta di guardiola, senza cellulare né valigia, sorvegliato da quattro persone”, “e dovevo chiedere permesso anche per andare in bagno, accompagnato nel tragitto, una privazione della libertà abbastanza umiliante”. Nel frattempo è intervenuta la Farnesina e, con discrezione, anche il Patriarcato di Gerusalemme... “Sì, non so bene cosa sia successo ma dopo sette ore mi hanno liberato e sono potuto salire sul primo volo”, E spiega che il suo doveva essere un “pellegrinaggio di giustizia, nelle terre palestinesi sotto occupazione: dai campi profughi a Taybeh, il villaggio cristiano in Cisgiordania che patisce gli attacchi dei coloni. Pellegrinaggio non è solo compiere atti di devozione. Bisogna avere il coraggio di denunciare, di non chiudere gli occhi mentre si uccidono bambini e gente in fila per il pane, di dire che dal '48 c'è un popolo privato dei suoi diritti”. (13 ago - red)
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