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Il lavoro 'collegato'
a cosa?

Il lavoro 'collegato' <br> a cosa?

di Oronzo Mazzotta*

Da molti anni la scrittura o la riscrittura delle regole del lavoro è contenuta in documenti normativi che si chiamano “collegato lavoro”. Uno dei primi e più rilevanti esempi è costituito dal “Collegato lavoro” di berlusconiana memoria (l. 183/2010). Ed anche l’attuale governo non ha mancato di perpetuare la tradizione (v. la legge n. 203 del 2024).

Se volessimo riguardare la questione da un punto di vista puramente semantico (e le parole pesano come macigni) dovremmo ricavare l’impressione che le regole sul lavoro costituiscano l’accessorio o l’appendice di qualcos’altro di più importante e soprattutto preminente. E cosa c’è di più importante e preminente se non le esigenze dell’impresa? Se ne volessimo la riprova basterebbe por mente alle scelte politiche sottese al “collegato” berlusconiano, che non miravano ad altro se non a limitare i poteri del giudice del lavoro, accusato di scarsa sensibilità verso le esigenze dell’impresa. Di qui il tentativo (vano) di limitarne la discrezionalità sull’altare della prevedibilità delle decisioni o di stringere i tempi delle impugnazioni di atti datoriali di gestione del rapporto (licenziamenti, trasferimenti, etc.) in nome del canone della certezza del diritto.

L’idea che il lavoro sia un’appendice dell’economia e che le sue regole debbano anzitutto facilitare la vita alle imprese viene da lontano. Nel periodo post-costituzionale è una storia che inizia nei primi anni ottanta, dopo la crisi petrolifera degli anni settanta che segnò la fine del boom economico e impose ai governi la necessità di rivedere molte regole lavoristiche a partire dagli automatismi retributivi (accusati di essere causa di inflazione). Da allora la parola d’ordine è divenuta “flessibilità”, parola d’ordine che sostituiva l’altra, “garantismo”, che aveva caratterizzato il decennio precedente e che aveva il suo fulcro nello statuto dei lavoratori del 1970. Fino al punto che si è potuto dire che, per effetto di questa nuova visuale, il diritto del lavoro aveva cambiato segno, intendendo privilegiare prioritariamente l’interesse dell’impresa.

Capita anche però che le regole del lavoro vengano riscritte (o si cerchi di riscriverle con dei colpi di mano parlamentari) nell’ambito di provvedimenti-omnibus (come le leggi finanziarie) o all’interno di provvedimenti mirati ad obiettivi specifici. Il caso più recente è costituito dalla legge di conversione del cosiddetto decreto Ilva (approvata definitivamente pochi giorni fa: legge 1° agosto 2025, n. 113). Nel corso della sua elaborazione si è cercato (da parte della attuale maggioranza) di introdurre un emendamento dedicato alla prescrizione dei crediti di lavoro (che, all’evidenza, nulla aveva a che vedere con l’oggetto del provvedimento legislativo in discussione). L’emendamento mirava a reinserire, fra l’altro, la regola della decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro in costanza di rapporto (e non dal momento della sua cessazione) per le imprese occupanti oltre quindici dipendenti.

La questione merita un minimo di spiegazione per i non specialisti della materia ed è di grande interesse data la pregnanza dei valori che vi sono sottesi. Come tutti sappiamo il principio fondamentale in materia di prescrizione e che essa decorre dal momento in cui “il diritto può essere fatto valere”. Il che significa che se, ad esempio, ho prestato dei soldi a qualcuno, il mio diritto ad ottenere la restituzione della somma si prescrive entro 10 anni dalla data del prestito. Questo è il principio generale nei rapporti fra privati. Sennonché questa regola è apparsa alla Corte costituzionale molti anni fa (metà degli anni sessanta) non estensibile a quel particolare rapporto privatistico che è il rapporto di lavoro. Il rapporto di lavoro non è una relazione fra pari – pensò e disse la Corte all’epoca – è invece un rapporto impari, che riguarda l’”essere” per uno dei contraenti (il lavoratore) e l’”avere” per l’altro. In buona sostanza ciò significa che il lavoratore, in costanza di rapporto, pur di non perdere il posto sarebbe disposto a rinunciare a far valere i suoi diritti, così facendo sfumare il termine di prescrizione. All’epoca eravamo infatti in un sistema in cui il datore poteva liberamente licenziare il lavoratore senza alcuna motivazione. Di qui l’introduzione da parte della Consulta della regola della decorrenza della prescrizione dal momento della cessazione del rapporto. Nacque così, con quel fondamentale intervento della Consulta, il nesso inscindibile fra disciplina dei licenziamenti e decorrenza della prescrizione.

Non a caso il principio fu soggetto a revisione nel momento in cui il legislatore introdusse, con l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, il diritto del lavoratore ingiustamente licenziato ad essere reintegrato nel posto di lavoro. I nostri giudici dissero allora che, essendo diventati “stabili” i rapporti di lavoro nelle imprese con oltre quindici dipendenti, la prescrizione poteva decorrere dal momento in cui il diritto poteva essere fatto valere e quindi anche in costanza di rapporto.

Le cose però sono nuovamente cambiate per effetto sia delle modifiche all’art. 18 introdotte dalla riforma Monti del 2012 sia, ed ancor di più, per effetto del c.d. Jobs Act del 2015. In conseguenza di tali riforme i nostri giudici hanno ritenuto che i rapporti di lavoro anche nelle imprese con oltre quindici dipendenti non fossero più stabili, con la conseguenza che nuovamente la prescrizione dovrà decorrere dalla cessazione del rapporto.

Il lettore scuserà questa lunga digressione ma era il solo modo per far comprendere come sia stato vano e maldestro il tentativo (poi rinviato a future riforme) di imporre per legge – in un quadro ordinamentale immutato – la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto. Vano e maldestro perché il principio che stabilisce una connessione inscindibile fra stabilità del posto e decorrenza della prescrizione è in qualche modo “costituzionalizzato”, cosicché ogni intervento che ne modifichi la decorrenza senza intaccare la disciplina relativa ai licenziamenti è destinato ad infrangersi contro il muro della Consulta.

Con buona pace dei blitz legislativi ferragostani …

 

 

* Professore Emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Pisa

 

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