Non sarà recuperato il corpo di Luca Sinigaglia, 49enne alpinista milanese morto sul Pobeda Peak (7.439 metri tra Kirghizistan e Cina) mentre tentava di raggiungere una collega ed amica russa 47enne Natalia Nagovitsyna rimasta bloccata dopo essersi rotta una gamba nella discesa e che, con ogni probabilità, è già morta anche lei. I soccorritori erano pronti, ma l'autorizzazione del governo kirghiso è stata revocata. “La salma resterà lassù, e il gelo la conserverà intatta per decenni come pure accade a centinaia di alpinisti rimasti in quota – scrive Filippo Facci sul Giornale -. E’ relativamente normale, e va spiegato: in alta montagna non tutti i morti possono essere recuperati per via dei costi ma anche di logistica, di geopolitica e di sopravvivenza dei soccorritori: un corpo ghiacciato può pesare oltre cento chili e richiede una cordata di almeno otto uomini per essere trascinato, e, dai settemila in su, ogni sforzo in più significa rischiare seriamente la pelle”. Lo scrittore ricorda che “un alpinista pure lui lombardo è stato ucciso l'altro ieri dal crollo di un seracco (un blocco di ghiaccio formato da un ghiacciaio) e questo sul Mont Blanc du Tacul, vetta di 4.240 metri nel versante francese del Monte Bianco. Un suo compagno, ferito, è stato salvato da un elicottero: in questo caso i soccorsi sono stati possibili perché la quota è meno proibitiva e il meteo era compatibile, ma, già a 4mila metri, e coi seracchi che crollano e le nevi instabili, non sempre un recupero è scontato”. Facci prosegue ricordando anche che le salme di un italiano e di un inglese, Daniele Nardi e Tom Ballardi, sono sul Nanga Parbat (8.126) dal febbraio 2019: droni, elicotteri e altri alpinisti permisero di localizzarne i corpi, i quali, tuttavia, erano e restano in un punto ritenuto troppo pericoloso per ogni tentativo: lo stesso Reinhold Messner aveva sconsigliato Nardi di provare per quella via. Le famiglie dei due alpinisti si opposero poi a ogni possibile tentativo di recupero e dissero che preferivano che diventassero parte integrante del Nanga Parbat. A quelle altitudini vale una legge non scritta che sfiora la crudeltà: spesso non si può soccorre un compagno, o chicchessia, anche se sono ancora vivi, perché portarli o trascinarli può significare condannare anche se stessi insieme a loro. E’ accaduto sovente soprattutto sull'Everest, dove alpinisti agonizzanti sono stati superati da altri che salivano o scendevano senza che nessuno potesse o volesse intervenire: raramente per mancanza di pietà, più spesso perché salvarne uno avrebbe significato perderne due. Nessun luogo concentra questa realtà come l'Everest. Nella cosiddetta Valle dell'Arcobaleno, sotto la cresta nord, visibili o invisibili, ci sono almeno duecento corpi, e alcuni sono divenuti dei veri e propri segnavia. Tra questi il celebre “Green Boots”, probabilmente l'indiano Tsewang Paljor, morto nel 1996 e rimasto per vent'anni rannicchiato sotto un anfratto della via normale, fotografato da migliaia di alpinisti; oppure “Sleeping Beauty”, la statunitense Francys Arsentiev, morta di sfinimento nel 1998 e icona macabra della salita. Dopo un paio di decenni li hanno spostati solo perché disturbavano le spedizioni commerciali. I corpi in alta quota, come detto, non decompongono e restano immobili, conservati dal gelo, spesso visibili, a volte spostati da valanghe. Per recuperarli servono mediamente 30-40 mila euro: non è strano che molti restino lì. La montagna, insomma, a certe quote divora ogni tentativo e impone sacrifici insensati: chi va sa che può restare, chi resta può divenire parte del paesaggio o un segnavia, un ammonimento, un ricordo. Alcuni corpi riaffiorano dopo decenni, altri restano lassù. Anche da noi, in Italia: nelle Alpi, i ghiacciai che si ritirano stanno restituendo pezzi di un passato che pareva cancellato. Sul Cervino, nel 2005, fu ritrovato il corpo di Henri Le Masne, alpinista francese scomparso nel 1954 e riconosciuto solo nel 2018 grazie al Dna. Nel 2015 riemersero i resti di due giapponesi caduti nel 1970. Ossa, attrezzature e scarponi emergono con la stessa naturalezza con cui i ghiacciai si ritirano. Sembra tutto così normale”
I soccorritori si sono fermati a quota 6.100 metri e sono stati costretti a tornare indietro, mentre il corpo dell'alpinista russa si trova su una piattaforma a circa 7.200 metri di quota dallo scorso 12 agosto. Il corpo di Sinigaglia, travolto da una bufera di neve, è invece a circa 6.900 metri. Come scrive Il Giorno, Luca Sinigaglia era già stato sulla vetta del Pobeda e inseguiva lo "Snow leopard", il riconoscimento che viene assegnato a chi riesce a scalare le cinque cime di settemila metri dell'ex Unione Sovietica. Aveva raggiunto il suo obiettivo, era l'ultima cima che gli mancava, doveva solo ritornare al campo base sano e salvo. Invece ha deciso di risalire per cercare di salvare l'amica in difficoltà. Nagovitsyna, 47 anni, si era rotta una gamba lo scorso 12 agosto, mentre assieme a Sinigaglia e ad altri due alpinisti, un russo e un tedesco, discendeva il Pik Pobeda. Uno dei compagni era sceso al campo base a chiedere aiuto, mentre Luca e un altro avevano provato a far scendere Natalia avvolta in un sacco a pelo. Non solo l'operazione non era riuscita, ma Sinigaglia è a sua volta rimasto bloccato in altitudine per la notte a causa del peggioramento del metro, morendo a causa di un edema cerebrale. Già sabato 16 agosto un elicottero della difesa kirghisa aveva provato un salvataggio, ma a causa delle condizioni meteo estreme era stato costretto a un atterraggio di emergenza alla quota di 4.600 metri e i soccorritori erano stati feriti nell'impatto. La Nagovitsyna era stata raggiunta il 19 agosto da un drone che aveva potuto accertare che l'alpinista era ancora in vita, ma che lo sia ancora è praticamente impossibile. Secondo quanto riporta la giornalista Anna Piunova, direttrice del sito mountain.ru, che dai suoi social sta seguendo giorno per giorno la vicenda, mai un alpinista infortunato è stato salvato a quella quota sul Pik Pobeda. Nagovitsyna nel 2021, ricorda il Cai, aveva visto morire sotto i suoi occhi il marito sul Khan Tengri (7.010 metri), colpito da un ictus fatale, rimanendo fino all'ultimo al suo fianco nonostante i soccorritori le chiedessero di scendere. È stato in quella occasione che aveva conosciuto Luca Sinigaglia, diventandone amica. (26 ago – red)
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